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Il terremoto di allora, il grande dolore di oggi

Chi c’era (domenica alle 19 e 34 di quarant’anni fa) e subito percepì, sa che si trattò di una immane tragedia. Una giornata di fine novembre, in cui il sole non era stato avaro, si avviava a conclusione con un evento che apparve immediatamente come l’annuncio dell’apocalisse. Un “serpente impazzito” emerse furiosamente dalle viscere della terra e fratturò con furia selvaggia gran parte dell’appennino meridionale. Polverizzò “quello sfasciume pendulo sui due mari”, il Tirreno e l’Adriatico, come molti decenni prima lo aveva classificato Giustino Fortunato. In quel minuto e trenta di movimento sussultorio “ho visto morire il Sud”, scrisse Alberto Moravia (“ad un tratto la verità brutale ristabiliva il rapporto con la realtà: quei nidi di vespe sfondati erano case per abitazioni, o meglio lo erano”).

*** NUMERI DI FUOCO. Si possono mai “quantificare” orrore e sgomento? Eppure resta impresso così, nella memoria, il peso di quella devastazione “come se fossero esplose quindici bombe di Hiroshima o, sotto terra, fosse scoppiato un milione di tonnellate di tritolo”. Era il decimo grado della scala Mercalli, il più distruttivo, con 3100 persone travolte, 8 mila ferite,1600 disperse, oltre 400 mila senzatetto. Campania in ginocchio soprattutto nell’alta Irpinia (da Sant’Angelo dei Lombardi a Laviano e Lioni, da Conza a Teora e Calabritto). La devastazione colpì duramente anche Basilicata (Balvano) e Puglia (Ruvo nella Murgia barese; si disse poi che “morì per rinascere”). Un’area vasta di 687 Comuni molti dei quali avevano già una storia di convulsioni estreme. Col terremoto del 1930 Ariano scontò duramente il ritardo dei soccorsi (i primi arrivarono solo due giorni dopo). Nel 1962 fu rasa al suolo gran parte del patrimonio edilizio. Nel 1980 è stato il grido “fate presto”, fuoruscito come un urlo dal presidente Pertini, a scuotere la macchina Stato (tra i più attivi Fiorentino Sullo ministro dei Lavori Pubblici, mentre dovette dimettersi il responsabile dell’Interno Virginio Rognoni).

*** DALL’ALTA IRPINIA AL VESUVIO. Capitolo a sé il terremoto a Napoli, a cento chilometri dal cratere. 122 morti, 430 feriti, oltre 100 mila senzatetto, più di mille i palazzi gravemente lesionati . Una sequenza spaventosa. In via Stadera a Poggioreale implode un grattacielo e seppellisce 20 famiglie. Crolli in altre due strade dove 20 persone muoiono d’infarto. Si sbriciola al suolo il solaio dello Sferisterio e Fuorigrotta diventa un accampamento. Città paralizzata dalle colline al mare. Vengono allo scoperto le “ferite nascoste” come scrisse Giampaolo Pansa. Il sindaco Valenzi mobilita tutta la forza di cui il Comune dispone e collabora con il commissario straordinario Giuseppe Zamberletti nominato dal Governo per le 3 regioni. Alla pressante richiesta di alloggi, si risponde requisendo case sfitte comprese quelle estive della Domiziana. Alla Mostra d’Oltremare è allestita una roulottopoli, mentre si avvia il piano per costruire 20 mila alloggi (in pochi giorni 80 mila domande).

*** L’ECONOMIA DELLA CATASTROFE. Se per accelerare i soccorsi dovette intervenire il Quirinale, velocissimi furono molti amministratori comunali a classificarsi terremotati per agganciare gli aiuti pubblici (diversi Comuni, dice ora Ciriaco De Mita, il terremoto lo avevano visto solo in tv). Dal quel maledetto 23 novembre nasce la Protezione civile come struttura di rapido intervento. Si apre allora anche un “rubinetto” che farà scorrere verso il Sud, per la ricostruzione,66 mila miliardi (astiosamente lo stigmatizzò il presidente della Commissione valutatrice, Oscar Luigi Scalfaro, diventato anni dopo presidente della Repubblica). Quella massa di denaro, commentò successivamente Indro Montanelli, ”fu un porto nelle nebbie”. L’edilizia se ne avvantaggiò, mentre non ebbero il necessario impulso le attività industriali capaci di creare lavoro e redditi meno precari. Il sottosviluppo meridionale sopravvisse insieme con lo stridente divario, disse Manlio Rossi Doria, tra la polpa e l’osso della Campania.

*** DUE LIBRI DI GIORNALISTI. Uno di quarant’anni fa, autori Salvatore Biazzo, Mimmo Carratelli e Aldo De Francesco; l’altro fresco di stampa, di Toni Ricciardi, Generoso Picone e Luigi Fiorentino. Argomentazioni diverse, ma comune l’idea dolorosa di un terremoto spreco di tempo e di risorse che meritavano un ben più produttivo

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