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09 Gennaio 2024 - 14:25
Quarant’ anni fa si celebrò una delle tappe più amare dell’ epopea di Achille Lauro. La vendita all’asta dei suoi arredi, quasi uno schiaffo postumo per un uomo che era stato tra i più ricchi e più potenti del Paese, capace di quelle intuizioni geniali e straordinarie che avevano costruito il suo impero economico. In quei mesi del 1984, a due anni dalla scomparsa del Comandante, Napoli viveva, in quei giorni, un’attesa pruriginosa. Finalmente le porte di Villa Lauro, in via Crispi a Napoli, si sarebbero aperte e la gente avrebbe potuto vedere la dimora più prestigiosa dell’ armatore, cosa possedeva, cosa custodiva, cosa contenevano quegli spazi misteriosi. Ma non c’era solo il gusto della scoperta. C’era anche quella curiosità compulsiva che accompagna determinati riti collettivi ed ora che il mito dell’ imprenditore, del presidente, del Sindaco, del parlamentare votato a largo suffragio, di uno degli uomini più facoltosi d’ Italia era decaduto, ora che il Tribunale Fallimentare aveva addirittura imbastito un‘ asta per provare a recuperare anche l’ ultima lira di quel grande crack finanziario, nessuno voleva mancare. Per curiosità, con una serie di amici, decidemmo di presenziare. L’ incanto era stato diviso in quattro appuntamenti, noi arrivammo a quello serale, il più affollato. Il salone era dominato da un’ ampia scalinata bianca, come nei film di Hollywood . Bastavano dieci gradini per incontrare un Mattia Preti. Sulle pareti laterali sei grandi arazzi della manifattura reale di Beauvais, appartenuti a Luigi XIV, il Re Sole, illuminavano la scena. Avrebbero trovato compratori in un gruppo di medici napoletani che li avrebbero rivenduti poi a Milano, nel 2006, con una ricca plusvalenza, ad oltre 2 milioni di euro. Mentre il biliardo in mogano a sei buche, prodotto dalla mitica Burroughes & Watts, sul quale aveva giocato Orazio Nelson, attirava in un angolo sguardi indiscreti. Salone affollatissimo. Nulla era stato lasciato al caso. Un catalogo attento e puntuale con un rigoroso elenco dei lotti, quella provenienza sbandierata come un piccolo trofeo, l’amo lanciato anche per le cose più piccole e personali, convinti che tutti, al momento giusto, avrebbero provato a portar via un qualsiasi ricordo di quella straordinaria storia. Le sedie si riempirono subito, molti restarono in piedi, nessuno si fece condizionare da quelle difficoltà. E, dipanando il magico gomitolo di ogni asta che conta, il banditore cominciò a battere le prime offerte, le prime aggiudicazioni. Si cominciò dalle cose minori. Due brocche di rame, alcuni tappeti, qualche lampada da tavolo. Roba di scarso valore commerciale ma di alto valore feticistico. Erano i beni della casa di Achille Lauro, e tanto bastava. Niente restava al palo. Prezzi in certi casi modesti ma superiori ad ogni logica valutazione, mentre la folla aspettava le cose migliori del catalogo. In silenzio si favoleggiava sugli acquirenti. Prestigiosi professionisti e protagonisti dell’ aristocrazia partenopea sembravano contendersi i lotti più prestigiosi. Uno tsunami di acquisti si abbatté su quei 962 lotti, disperdendo tutto in mille rivoli. Ma l’ incasso di oltre 2 miliardi di lire fu solo un modesto contributo alla copertura di quel crack finanziario. Fu importante solo, in quelle sere, disarcionare paradossalmente quel mito che, per decenni, aveva dominato e affascinato Napoli.
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