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12 Febbraio 2024 - 15:37
Le proteste in queste settimane animate dal mondo dell’agricoltura dimostrano un’evidente sottostima dei pesanti problemi che in quell’ambito sono andati maturandosi in decenni di gestione politicamente amministrata del lavoro nei campi. Un’evidente prova dello scollamento tra dirigenze e realtà produttiva si ha nelle reazioni che dalla gran parte dei commentatori si sono avute nei riguardi delle proteste in corso, potenzialmente assai minacciose. Sui ‘grandi giornali’ – che dovrebbero essere i luoghi di formazione dell’opinione pubblica critica ed avveduta – si sostiene diffusamente che gli operatori del mondo agricolo non avrebbero giustificazioni nel loro manifestare; essi non si renderebbero conto che – non fosse stato per le benefiche sovvenzioni dell’Unione Europea da decenni fonte di erogazione di ingenti contributi, sorta di manna dal cielo – nemmeno avrebbero potuto montare sui trattori utilizzati per simboleggiare la loro molto sentitissima protesta. Insomma, gli agricoltori non sanno quel che fanno mentre, se leggessero i giornali, s’aprirebbe il loro insufficiente comprendonio e potrebbero capire finalmente in qual privilegiata condizione si trovino, interrompendo immediatamente sì ingiustificate proteste, al più sussumibili a segni d’ingratitudine nei confronti della generosa madre europea. Ora, un simile modo di ragionare può provenire solo da chi vive sulle stelle e probabilmente nemmeno sospetta cosa significhi il lavoro duro che è necessario a rendere produttivi i terreni. Eppure sarebbe sufficiente far caso ad un dato di prima evidenza: venerdì scorso il Governo, resosi conto della gravità della situazione e dei suoi letali, possibili sviluppi, ha repente deciso d’eliminare la tassazione Irpef improvvidamente (e mostrando alquanta sordità) reintrodotta a carico di tutti i lavoratori dell’agricoltura, e ne ha quindi escluso l’applicazione per i redditi sino a 10.000 €. La misura – è stato calcolato – riguarderà circa il 90 % degli operatori. Se la matematica non è troppo opinabile, ciò vuol, dire che il 90 % degli addetti al settore produce un reddito inferiore a 10.000 €: e pur fatte tutte le possibili tare e tenuto conto dei diversi costi della vita, si tratta pur sempre di redditi che ruotano intorno a soglie di povertà. Il dato risuona un po’ diversamente da come i grandi giornali lo presentano. Rende abbastanza comprensibili le reazioni dei piccoli imprenditori agricoli (il 90 % almeno) rispetto ad ulteriori limitazioni a produzioni, colture, fitofarmaci e via dicendo; per non dire degli incrementi fiscali e della pretesa di tassare redditi di codesta minima dimensione. Peraltro, a fronte d’un lavoro che è duro, che richiede lunghe ore di serio impegno fisico in condizioni metereologiche le più varie, che non dà tregua, spesso e volentieri, nemmeno nel dì di festa. Un tale che di queste cose com’è noto s’intende parecchio – il dr. Antonio Di Pietro – ha dichiarato nei suoi modi privi d’orpelli, in questo caso come non mai appropriati: «Con i nostri terreni mio padre ci ha cresciuto i figli. Oggi di fatica ad arrivare alla fine del mese. Non si riesce nemmeno più a comprare il grano per seminare». Di Pietro dispone di circa 25 ettari di terreno, più o meno quanto qualifica un’impresa agricola; dunque, conosce bene la situazione in cui si muove il piccolo imprenditore agricolo, e del resto bene dovrebbero conoscere tutti, soprattutto i decisori, quelli che fanno le politiche agricole dell’Ue e nazionali (per quel poco che se ne possono fare). C’è da chiedersi come un simile impoverimento si sia verificato, nonostante il vero e proprio fiume di denaro che la Ue immette nel settore. Beh, le risposte sono varie ma alcune, anche in questo caso, evidenti più di altre. Anzitutto, l’Ue non distingue seriamente la condizione dei piccoli imprenditori agricoli, che hanno estensioni di terreno appena sufficienti a dare loro reddito, da quelle dei proprietari di grandissime estensioni che possono assorbire senza troppo di sofferenza le numerose limitazioni alle culture ammesse, alle rotazioni ai fermi finanziati. In secondo luogo, accade sempre nei mercati eccessivamente controllati (e quello agricolo lo è puntigliosamente, con regole che prescindono dalle esigenze produttive per fare prevalere molto spesso altre di natura ‘politica’) che si creino squilibri nei rapporti tra domanda ed offerta. Nel mercato dei prodotti agricoli s’è determinata un’evidente proporzione tra il guadagno del primo produttore – quello che lavora nei campi – ed il prezzo del prodotto quando arriva sugli scaffali dei supermercati: uno iato enorme, che sposta l’utile in vantaggio di chi trasforma e mette in vendita, a tutto scapito dell’agricoltore. Uno scapito che, quando non adeguatamente colmato dai sussidi pubblici, rende diseconomica la coltivazione agricola e fa lentamente montare disagio e quindi protesta. Il mondo delle istituzioni – di quelle europee in particolare – sembra aver dimenticato quanto l’agricoltura sia ancor oggi e sempre sarà fondamentale per la vita ed anche per la vita economica. Abituato ad una (relativa) docilità di quegli operatori – storicamente meno predisposti alla lotta degli addetti al settore industriale – ha ritenuto di poter chiedere e sempre ottenere, dispensando aiuti progressivamente più inefficienti. E la protesta è montata, una protesta temuta assai più di quanto non lo si dia a vedere. E non è facile prevedere se continuerà a montare o se saranno trovati strumenti capaci di smontarla.
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