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Addio a Minà, l'uomo che inventò la Napoli sudamericana

Addio a Minà, l'uomo che inventò la Napoli sudamericana

Il grande giornalista è stato un privilegiato osservatore di un secolo irripetibile

di Alexandro Maria Tirelli

 

Desidero esprimere profondo cordoglio per la morte di Gianni Minà. Grande esempio del giornalismo italiano, mentore e maestro assoluto di una informazione di qualità e al tempo stesso popolare. Un ringraziamento speciale, pubblico, per l’uomo da cui ho appreso tanto. Come l’empatia per i più deboli, il profondo rispetto per chi ha una visione del mondo differente dalla propria. L’Italia, con la scomparsa Gianni Minà, perde un punto di riferimento culturale di primissimo piano.

 

Minà aveva radici simili alle mie. Nato a Torino, allo stesso tempo amava Napoli: due realtà, due contesti agli antipodi eppure non troppo diversi nella sua prospettiva di vita. Sul finire degli anni ‘80 diede vita a un’operazione culturale di eccezionale valore che ancora oggi tutti noi ricordiamo con nostalgia e affetto, e di cui forse sottovalutiamo l'importanza. Insieme a Pino Daniele e a Massimo Troisi, mise infatti Napoli sotto i riflettori. Una città derelitta, reietta, una Napoli completamente differente da quella di oggi, ancora ferita dallo scandalo del terremoto e dalle guerre di camorra. Una metropoli che viveva ai margini della pubblica opinione italiana.

Minà invece ne fece conoscere bellezza e interpreti – Troisi e Daniele, appunto – e si fece portatore e vessillifero di una nuova concezione della città e della sua cultura. La arricchì, ne fece risplendere il fascino e la nobiltà utilizzando la televisione come mai prima era stato fatto nel capoluogo campano. Conferì a Napoli quasi un’aura sudamericana, infondendo nei suoi racconti e nei suoi reportage, all'ombra del Vesuvio, quel «realismo magico» che aveva fatto la fortuna letteraria di un suo grande amico, Gabriel Garcia Marquez. Gli anni del sodalizio con Maradona completarono questo quadro fantastico: Napoli era tornata ad essere la vera capitale del Sud, una sorta di Buenos Aires o di Rio de Janeiro posizionata, però, nel Mediterraneo. Fucina di arte e bellezza ma piena di contraddizioni sociali.

 

Minà mi ha guidato nell’analisi e nello studio della società sudamericana, dei suoi miti, della sua cultura. Lo incrociai durante un incontro con il presidente venezuelano Chavez. Era presente durante una visita a Bachelet. Sembravamo uniti lungo un percorso da un filo seppur su posizioni non sempre coincidenti. A Salvador, alla prima de «I diari della motocicletta» di Walter Salles, lo ritrovai con la solita passione, il solito entusiasmo. Amo Gianni Minà, testimone di un tempo bellissimo e ormai trascorso, fatto di uomini eccezionali (come Garcia Marquez, appunto; il Che, Alberto Granato, Hugo Chavez, Pelé, Garrincha, Chico Buarque e tanti altri) in un mondo eccezionale. Testimone di un’America Latina purtroppo, oggi, deformata dalla globalizzazione.

 

Non mancarono gli scontri, come quello avvenuto in un albergo romano per le prediche sulla globalizzazione e il neoliberismo. Lui amava monsignor Romero e la teologia della Liberazione. Io da laico la ritenevo una visione un po’ buonista. A distanza di tanti anni, pur mantenendo la fede nel mercato, sono giunto alla conclusione che la guerra dell’umanità sarà quella per evitare la concentrazione dei capitali in mano a pochissimi e l’accesso degli esclusi (sudamericani, africani, asiatici) nel gioco delle decisioni della geopolitica. Ho vissuto anni importanti tra Brasile, Colombia, e Venezuela. Gli anni più belli, più formativi. Più o meno consapevolmente, ho portato Minà nella coscienza e nella mente. Rimarrà sempre nel mio cuore.

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