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L'opinione

La canzone napoletana: l’Unesco irriconoscente

Il genio napoletano, nella musica e nel canto, sopra ogni altra arte, disciplina o mestiere, ha dato di sé prova superba

Il genio napoletano, nella musica e nel canto, sopra ogni altra arte, disciplina o mestiere, ha dato di sé prova superba. Le stesse produzioni moderne e contemporanee della musica made in naples confermano il manifestarsi di uno straordinario fermento artistico espressione di una linfa musicale che non teme confronti, in termini di provenienza etnico culturale, con alcuna altra espressione o genere musicale di diversa matrice geografica. Non si può dire altrettanto per lo stato in cui versa, invece, la conservazione della canzone classica napoletana: un immenso patrimonio di tradizione, cultura,storia, arte, poesia e musica che rischia concretamente, invece, di andare progressivamente disperso. Vero è che Napoli è da tempo riconosciuta come una capitale su scala mondiale per la musica ed il canto: la città annovera, sotto tale profilo, un appannaggio di opere, canti, d’autore e popolari, che, per numero e qualità, non ha pari, con le espressioni di tradizioni sedimentate in altre parti del pianeta. Tanto vale soprattutto per la canzone classica napoletana, intendendo per tale quello sterminato repertorio che va dagli inizi del XX secolo all’immediato secondo dopoguerra e che, sovente, ha incarnato uno dei simboli della canzone italiana all’estero. Vero è che, nel corso del Novecento, quando all’estero, durante lo svolgimento di manifestazioni sportive ufficiali, si è lamentata la mancanza dello spartito della marcia reale o dell’inno di mameli, in onore della compagine nazionale, venivano prontamente intonate le note di ‘O sole mio o di Addò sta Zazà: il repertorio classico napoletano ricomprendeva melodie universalmente note che tutti gli orchestrali erano prontamente in grado di eseguirle ad orecchio. Alle Olimpiadi di Anversa, invece di eseguire l’ignota marcia reale, la banda intonò ‘O sole mio, e fu cantata in coro da tutto il pubblico belga. Alla rilevanza storico artistica di tale inestimabile patrimonio musicale fa da contraltare il pericolo, concreto ed attuale, di dissipazione cui si trova esposto tale prezioso retaggio immateriale. Eppure la canzone classica napoletana, in qualsivoglia modo la si voglia considerare, è tutto fuorché morta. L’oblio, cui si trova esposta tale eredità, è un pericolo incombente che si percepisce, innegabilmente, ogni qualvolta vengano evocati, in presenza di giovani, ed anche di non giovani, opere ricomprese in tale repertorio. In tali circostanze sistematicamente si registra, da un lato, la felice sorpresa, dall’altro, il manifesto rammarico che l’interlocutore lamenta per averne fino, all’occasionale evocazione, ignorato lo splendore. Il denunziato pericolo di oblio non deve destare sorpresa: il tempo inesorabilmente passa, e che anche gli attuali cinquantenni sono cresciuti come fan di Pino Daniele, Enzo Avitabile o Teresa De Sio, piuttosto che di Raffaele Viviani, Ernesto Murolo, Salvatore Di Giacomo, E. A Mario, Eduardo Di Capua o Sergio Bruni, solo per citarne alcuni e fare un torto ai tanti. Eppure quando, in occasioni che si vanno sempre più rarefacendo, i più giovani beneficiano dell’opportunità di ascoltare, per la prima volta, canzoni della tradizione partenopea comprendono subito che la musica, per essere bella, non deve necessariamente provenire dall’anglosfera e fare ricorso o strumentazione elettronica. Non è accettabile che la canzone classica napoletana trovi attenzioni e curatori più numerosi in terra straniera che da noi in Patria. A Tokio esiste un museo della canzone napoletana ed a Napoli non c’è. I posteggiatori che, come i cantastorie, tramandavano, interpretandole le espressioni di un arte colta e, al contempo, viva, diffusa e popolare, sono scomparsi. Il festival dal 1972 è morto. Piedigrotta, contrassegnata da carri allegorici ispirati a temi musicali, pure. Il materiale d’epoca così si va tragicamente disperdendo nelle mani di pochi privati collezionisti. Quale mero esempio, tra le tante figure di autori illustri che si cimentarono nel dare vita a canzoni favolose, rischia di restare dimenticata quella iconica di Salvatore Gambardella, analfabeta musicale, la sua ispirata sensibilità ha consegnato al patrimonio musicale dell’umanità la creazione di melodie meravigliose come “‘O marenariello”, “Serenata a Surriento, “Quann tramonta ‘o sole”, solo per citarne alcune. Si pensi che una sua composizione minore di Gambardella, “‘A voce e primavera”, fu strumentata da Giacomo Puccini. Puccini, di cui quest’anno si celebrano i cento anni dalla scomparsa, considerò un onore cimentarsi con l’espressione più pura del genio musicale napoletano. Eppure Gambardella era stato un semplice garzone di bottega e, come orecchista, suonava a stento il mandolino, e soleva, più che comporre, esprimere melodie che prendevano forma con il fischio dell’autore. Un miracolo artistico. Accadde, all’epoca, che“Furturella” - una delle composizioni allora più recenti di Gambardella – aveva, tra le altre, attirato l’ammirata attenzione non solo del grande compositore lucchese ma anche di Pietro Mascagni. Puccini, allorquando ascoltò “Furturella”, strabiliato, disse: “La canzone ha una progressione musicale discendente degna del più grande musicista classico”. Puccini successivamente fece dono a don Salvatore di un pianoforte, esortandolo - con un riconoscimento tangibile - a coltivare il talento di cui era dotato studiando musica. In segno di riconoscenza allo straordinario tributo riservatogli da Puccini, Gambardella si impegnò nello studio della musica, ma con quel pianoforte compose solo “Quanno tramonta ‘o sole” e qualche altra canzone minore. Don Salvatore rimaneva un napoletano di estrazione popolare: i versi e le sequenze musicali prorompevano spontanee, fuoriuscendo come lava da un cratere che solo la scomparsa, avvenuta prematuramente, avrebbe definitivamente spento . E solo il più spontaneo dei gesti comunicativi, il fischio, poteva evitare che andassero disperse le felici espressioni della sua creatività. Purtroppo le spoglie mortali di un compositore che ha lasciato al mondo toccanti melodie riposano, giacciono dimenticate, in una misera tomba, povera di fiori, nel cimitero napoletano di Poggioreale, sovrastata da una piccola lapide con la quale la vedova ne piangeva la scomparsa e ne lamentava l’abbandono degli amici. Altrettanto povero di fiori è lo scrigno che raccoglie gli innumerevoli ed inestimabili tesori che comprendono lo sterminato catalogo della canzone classica napoletana. Godiamo del privilegio di condividere una tradizione che tutto il mondo ci ha invidiato, e ci invidia tuttora, costituendo un tesoro artistico inestimabile. L’Unesco, allo stato, è irriconoscente. Quale bene immateriale, la canzone napoletana merita invece di essere riconosciuta dall’Unesco patrimonio dell’Umanità vantando pari, se non maggior titolo del tango argentino, dal fado portoghese e del canto a tenore sardo. E vanta maggior di titolo anche del canto lirico italiano: è il canto lirico che attinge e si abbevera alla canzone classica napoletana, piuttosto che il contrario.

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