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La riflessione
08 Luglio 2024 - 13:14
Non ho difficoltà a riconoscere che le reazioni dell’Associazione Nazionale dei Magistrati all’abolizione del reato di abuso in atti d’ufficio abbiano una loro fondatezza. L’encomiabile sensibilità di quell’organizzazione per le ragioni dello Stato di diritto, per carità, non sapessi da dove provengono, quasi mi stringerebbe il cuore. Indubbiamente, sottrarre una sfera importante dell’azione della Pubblica Amministrazione al controllo penale, non è scelta dappoco. L’abuso in atti d’ufficio dovrebbe, a farla breve, contrastare la soperchieria del pubblico funzionario il quale, facendosi forte del potere amministrativo, vessi il cittadino. È un’area effettivamente presente nella quotidiana esperienza che si fa del potere pubblico. Quante volte, soprattutto quando ci si trova in dimensioni spaziali ristrette – nei tanti piccoli comuni italiani – è una realtà l’atto amministrativo motivato dal malanimo, dallo spirito di fazione, da rivalità d’ogni sorta, anche sentimentali (e parlo per vicende che ho avuto modo d’incrociare professionalmente): una realtà che può creare molto danno personale, familiare, sociale. Si aggiunga che i rimedi cosiddetti interni alla pubblica amministrazione – procedimenti disciplinari, controlli gerarchici, poteri sostitutivi – nell’attuale sfascio della macchina pubblica sono praticamente inesistenti. Anche dinanzi ai soprusi più evidenti, si può esser pressoché certi che qualsivoglia esposto si presentasse ai pubblici uffici – ce ne sono di fatti apposta per questo: tipo l’ufficio relazioni con il pubblico – resterebbe nella massima parte dei casi lettera morta. Una sorta di omertà amorale aleggia per le stanze della burocrazia italiana che – se ne può esser pressoché certi – dinanzi ad una protesta dell’utenza si chiuderà a riccio, a meno che non arrivi il drappello dei Regi Carabinieri a dir la sua. E si rischia, con l’abolizione del reato di abuso, di far sì che i suddetti Regi militi non abbian più ragione di varcar la porta degli uffici amministrativi, i quali avranno agio di fare il bello ed il cattivo tempo su vaste aree dell’esercizio dei pubblici poteri. Dunque – sarebbe da concludere – onore al merito dell’Anm. Ma dietro quell’acronimo, si nasconde una potente organizzazione che nella storia della nostra Repubblica – almeno a mio avviso – non ha troppe coccarde da esibire in petto. Perché, se tanto avvertita cura per il pubblico interesse essa esibisce in occasione dell’abolizione del reato, non mi sembra altrettanta per la sacralità dello Stato di diritto ne abbia testimoniata nell’esperienza della vita giudiziaria dei signori dell’azione penale. L’abuso di ufficio è stato a tal punto abusato che per esso s’è creata una legittimante categoria classificatoria di tutto rispetto: ‘reato spia’, vale a dire – per uscir di metafora – che l’abuso è contestato quale grimaldello per ricercare ipotesi più gravi, dalla corruzione alla concussione o altro. E quando una figura di reato – il cui impiego dovrebbe ispirarsi al criterio rigoroso della tassatività – viene ‘forzata’ (qui la mia metafora) perché serva di ancella ad altre e ben diverse ipotesi, non solo indimostrate, ma allo stato delle indagini nemmeno fornite di supporti indiziari, è evidente che si è nell’abuso dell’azione penale: dato che i reati hanno consistenza loro propria e, o ci sono e si contestano, o non ci sono e si va alla ricerca di quel che si ritiene debba trovarsi d’altro. Insomma, non si terrorizzano – nello Stato di diritto – gli indagati cucendo loro indosso fattispecie di crimini che possono vederli condannati per fatti squisitamente formali – l’abuso in atti d’ufficio è dietro ogni atto amministrativo – perché si sospetta che ci sia dell’altro: o il ‘dell’altro’ si può dimostrare o resta una maliziosa ideazione dell’investigatore, che può essere utile per la conversazione privata, ma non per mettere in moto l’azione penale ed il susseguente processo. Nella storia mai nulla si verifica senza ragione. Se oggi si parla d’abolire l’abuso in atti d’ufficio, non è perché quel reato non coprisse una effettivamente sussistente area di delitti; piuttosto è perché esso è stato distorto a fini deviati mille e mille volte da una magistratura inquirente che se ne è servita per spaventare, indagare, intercettare persone che nulla avevano da vedere con il crimine – o almeno nei confronti delle quali il crimine non aveva modo d’esser dimostrato (che per lo Stato di diritto è lo stesso, o dovrebbe esserlo) – e che dopo penosi processi e dolorose indagini sono uscite assolte da ogni accusa, in primis da quella d’aver abusato del pubblico potere. Dunque, la sensibilità a corrente alternata dell’Anm lascia di che pensare: perché allo Stato di diritto si crede o non si crede, e non si crede soltanto quando per causa di condotte a dir poco improprie degli investiganti la legge è costretta a recedere ed a cedere parte della sua coerenza: dato che la legge vive nella storia e quando se ne abusa risente degli abusi e sceglie il male minore. Ma non è tutto. Perché siamo in Italia. E mentre si sbandiera che il reato d’abuso è eliminato, di soppiatto lo si reintroduce, anche se nella vecchia forma del peculato (compreso quello, abborrito, per distrazione). Non entro nel merito tecnico, perché ci vorrebbe almeno un altro articolo: dico solo – ed il lettore qui deve fidarsi – che siamo proprio in una situazione pulcinellesca. Magari ci tornerò, se la tristezza per le sorti del nostro Paese non dovesse prendere il sopravvento.
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