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L'intervento
14 Luglio 2024 - 10:20
Da un paio d’anni, da quando è divampato il conflitto in Ucraina, siamo stati davvero in pochi a chiedersi, e a denunciare, se a Joe Biden fosse andato di volta il cervello. Vox clamantis in deserto. Ora pare che tutti sapessero da tempo e siamo di nuovo in pochi a chiederci come mai abbiano, negli Stati Uniti e in Europa, fatto a gara a tacere, a nascondere che l’uomo con la valigetta nucleare perdeva pericolosamente colpi, ad assecondare acriticamente la sua strategia politica e la sua tattica militare. Sua per dire quella dei più influenti suoi consiglieri.
Eccolo dinanzi agli occhi il solo, verorisultato: in Ucraina diverse centinaia di migliaia di vittime, milioni di emigrati tra esuli e fuggitivi dalla leva obbligatoria, devastazioni da mozzare il fiato ad ogni essere vivente, salvo agli sciacalli già salivanti nel piacere dell’attesa per una futura ricostruzione. A pagare il conto saranno sempre e solo i contribuenti: i convinti, gli illusi, gli ingannati e purtroppo pure i critici. Vittime, questi ultimi, di quanti spalmano mai i profitti e sempre le perdite, proprio come quelli abituati a fare beneficenza con le tasche altrui.
Secco il commento di Donald Trump alle ultime sbandate di Biden. Accompagnato da una esortazione lapidaria: “Grande, Joe. Insisti!”. I media americani filo-Dem hanno cambiato rapidamente il tiro. Adesso si preoccupano. E in Europa ci si accoda. Il ‘Figaro’ ha titolato in prima pagina: “Gaffe monumental de Biden, qui annonce le ‘président Poutine’ au moment d'accueillir Zelensky”. Non c’è bisogno di traduzione. Ma non è finita. Aggiungeva, nel sommario, che l’inquilino della Casa Bianca garantiva le ottime capacità di Kamala Harris – non cognitive ma politiche e istituzionali, messe periodicamente in dubbio negli ultimi quattro anni ma raddoppiando la figuraccia: «Non avrei scelto Trump come vicepresidente se non pensassi che è qualificata per svolgere questo compito”.
I leader nella capitale Usa per i 75 anni della Nato farfugliavano qualcosa, non sapevano che pesci pigliare. Emblematica la nostra premier: ha trovato bene Biden, ma s’è preoccupata di aggiungere che la “famiglia politica comune è quella dei conservatori”, quella pure di Trump, perché “Italia e Stati Uniti sono due alleati solidissimi e hanno sempre avuto ottime relazioni” indipendentemente dai loro rispettivi leader. A casa di Trump era in visita Viktor Orbàn. Ma non è isolata l’Ungheria. A non voler scucire i cordoni della borsa per dare armi all’Ucraina s’è aggiunta la Slovacchia. E’ passata sotto silenzio la dura dichiarazione di Robert Fico. Le pallottole non lo hanno intimidito.
Limpide le idee e le parole: “Cari media liberali progressisti e opposizione, scusate se sono sopravvissuto ma sono tornato”. Il premier della Slovacchia scampato miracolosamente, a metà maggio, ad un attentato che a molti ha ricordato quello a Aleksandr Dugin e costata la vita alla figlia Darja, trentenne, laurea in filosofia, master in Francia. Di sinistra, Fico, ch’è di origini italiane e dallo scorso autunno capo del governo, sull’Ucraina la pensa come Orbàn. “Non offro armi a Kiev e non firmerò l’adesione dell’Ucraina alla Nato”.
La guerra con la Russia – ha ribadito è iniziata dieci anni fa “quando i nazisti ucraini hanno cominciato a uccidere i civili russofoni”. Un conto salato il sostegno – finora già per centinaia e centinaia di miliardi tra dollari ed euro ad un regime poliziesco, bugiardo, tremendamente corrotto, che sotto la spinta anglo-americana ha respinto ogni serio negoziato basato sul realismo e non su chimeriche controffensive. I biIanci della Difesa raggiungono la soglia del 2% , che ai più era stata sempre lontana. In alcuni Paesi la previsione è addirittura di raddoppiare quel raguardo.
Ma c’è un costo impagabile: aver distrutto, in un paio d’anni, quasi mezzo secolo di sforzi per poter porre fine alla Guerra Fredda e ricomporre l’unità dell’Occidente, tra la sfera euro-atlantica e quella euro-asiatica. Il Vecchio Continente dopo un digiuno trentennale si riempie la pancia di missili a corto e medio raggio, di quelli che raggiungono l’obiettivo in tempi minori degli intercontinentali, più imprevedibili e difficili da intercettare tempestivamente. Washington ringhia quando sbuca il sospetto che possano aggirarsi o impiantarsi nel cortile di casa. Ora servono… alla pace.
Le stime degli arsenali nucleari, a fine 2023, indicavano la Federazione russa in testa, con 5mila e 889 testate atomiche, seguita da Stati Uniti con 5mila 244, la Cina con 500, la Francia con 290, la Gran Bretagna con 225, il Pakistan con 170 , l’India con 164, Israele con 90 e la Corea del Nord con 30. Immaginarne la crescita negli ultimi sette mesi è più che realistico, ipotizzarne il livello azzardato. E la corsa al riarmo ‘convenzionale’, non solo in Occidente ma anche in Asia e in Medio Oriente, è impressionante.
Le fabbriche di morte lavorano a pieno regime, assumono e non licenziano personale. La produzione si limiterebbe all’ambito di un armamento ‘convenzionale’, peraltro vieppiù distruttivo. Sarà… Mosca torna a insistere: anche i missili a corto raggiopossono trasportare testate atomiche. Nel 1987 il trattato Inf a Washington tra Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov sulla loro eliminazione dall’Europa (che ne facevano il teatro di primo fuoco nucleare) fu il primo della storia a sancire il passaggio dal controllo reciproco e bilanciato dell’arsenale nucleare Usa-Urss, al disarmo bilaterale. Scomparso sotto la polvere della retorica.
Non a caso, nei giorni scorsi il ‘Financial Times’ ha pubblicato una lettera aperta di personalità della cultura e della diplomazia che sollecitano l’apertura seria di trattative improntate al pragmatismo. Hanno definito “urgente raggiungere una pace negoziata, non da ultimo per il bene della stessa Ucraina…. La riluttanza dell’Occidente ad accettare una pace negoziata si basa sulla convinzione che qualsiasi cosa che non sia una completa vittoria ucraina consentirebbe a Putin di ‘farla franca’. Ma questo ignora di gran lunga il risultato più importante registrato finora in questa guerra: che l’Ucraina ha combattuto per la sua indipendenza e l’ha vinta, come fece la Finlandia nel 1939-40.
Alcune concessioni territoriali appaiono un piccolo prezzo da pagare per la realtà, piuttosto che per la parvenza, dell’indipendenza... Washington dovrebbe avviare colloqui con Mosca su un nuovo patto di sicurezza a salvaguardia dei legittimi interessi di sicurezza sia dell’Ucraina che della Russia”. Pare riascoltare gli avvertimenti di Henry Kissinger. E le accuse di quanti, come Edward Luttwak, fanno risalire le responsabilità a Barak Obama, perché Biden si sarebbe trovato di fronte alle conseguenze delle scelte di politica estera del suo presidente, il quale allora come oggi lo sopporta a malapena. Biden non condivideva le scelte di Obama.
E perché mai – c’è da chiedersi – spingere un attore divenuto presidente come in una serie tv, Volodymyr Zelensky, verso la guerra? Per Zelensky, accusato dall’ex premier israeliano Naftali Bennett d’aver prima accettato come aveva fatto Vladimir Putin il suo piano negoziale e di averlo poi rifiutato, ci sarà sempre un aereo della Cia pronto a decollare portandolo in salvo. Al riparo prima che dai russi, dai concittadini che si guarda bene dal consultare. Proprio com’è avvenuto dovunque gli Usa hanno messo lo zampino per poi ritirarlo, per ultimo in Afghanistan.
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