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Il punto

Demonizzare l’avversario incoraggia ad ucciderlo

Il commento di Almerico De Meglio sull'attentato a Trump

Esplosivi in auto e a casa dell'attentatore di Trump

Donald Trump subito dopo essere stato ferito

Neppure mezz’ora e più che dell’attentato a Donald Trump si metteva in risalto in alcuni media europei il risvolto ‘negativo’ dell’accaduto: l’ex presidente avrebbe guadagnato punti nei sondaggi tra gli elettori in vista delle presidenziali di novembre. Eppure l’attentato a Trump avviene a poche settimane a un simile agguato terroristico nel cuore dell’Europa, al primo ministro della Slovacchia, Robert Fico, leader del partito di sinistra Smer ma in politica estera su posizioni simili a quelle del premier ungherese Viktor Orbàn, leader del partito di destra Fidesz, fautore del negoziato con la Russia e quindi contrario a fornire al regime di Kiev denaro e armi a lunga gittata capaci di provocare un conflitto tra la Nato e la Federazione russa. Fico se l’è cavata per un pelo, benché gravemente ferito: una difficile convalescenza ma tornerà presto a svolgere le sue mansioni. Anche Trump non tarderà a rientrare in campagna elettorale. Incredibile la sua reazione immediata, a dir poco coraggiosa, che la dice tutta sul suo carattere: “Continuiamo a combattere, la lotta continua”. In America i notiziari hanno subito alternato cronaca degli avvenimenti, notizie sulle vittime dell’attentato, critiche alle falle nel dispositivo di sicurezza predisposto per l’appuntamento elettorale dell’ex presidente…e due immagini di Joe Biden: per la telefonata di solidarietà al suo rivale per la Casa Bianca e per l’avvertimento agli elettori, durante un recente comizio, a “tenere nel mirino l’avversario della democrazia”. Quasi che l’attentatore, ignorando il valore politico ed elettorale dell’esortazione, l’avesse preso alla lettera. Un ventenne schedato come aderente al partito repubblicano, ma che secondo altre fonti i repubblicani odiava, un’adesione per poter votare o un espediente per avvicinarsi più facilmente a Trump. La sua eliminazione, peraltro, è stata così veloce da riaccendere la tesi del complotto, ricordando a molti Lee Harvey Oswald, l’assassino di John Kennedy, cui “si chiuse la bocca” un paio di giorni dopo la cattura. Una cosa è certa. L’attentato è la conseguenza della demonizzazione dell’avversario. Un fenomeno ha prevalso, segnatamente nella sinistra americana ed europea, al civile confronto di idee e programmi, se non più di declinanti ideologie. Di pochi giorni fa il monito del filosofo francese Pierre Manent: “Il tratto distintivo che l’ordine liberale e democratico aveva comefondamento era la uguale legittimità della maggioranza e dell’opposizione. Il nuovo ordine che si sta imponendo sempre di più su tutti noi riposa, invece, sul contrasto fra opinioni legittime e illegittime. Mi sembra già chiaro checon questa trasformazione abbiamo iniziato il passaggio a un ordine che si affida al confronto fra ortodossia ed eresia politica. Se questo è vero, siamo in procinto di abbandonare la democrazia cosi come l’abbiamo conosciuta finora». Ma torniamo all’attentato che rientra nella tradizione degli agguati ai presidenti da parte degli abitanti degli Stati Uniti, che uniti lo sono nei momenti nazionali cruciali ma tutti i giorni mai. Perché nazione lo sono divenuti per convenienza e necessità di tutti gli immigrati. Perché lo Stato venne edificato sull’ossario di una quindicina di milioni e più di nativi, poi sulla manodopera nera nelle coltivazioni e in seguito nell’industria, infine completato col lavoro di tutti, di là dalla pelle e dalle origini etniche. L’attentato a Donald Trump non ricorda quelli a Lincoln né ai fratelli Kennedy, bensì quello a Ronald Reagan. Per due motivi. Il primo: entrambi miracolati considerando che, storicamente, 5 capi di Stato Usa dei 14 finiti nel mirino di attentatori, ci hanno rimesso la pelle. Il secondo: entrambi popolari ma denigrati dagli avversari. Reagan venne sulle prime considerato dai radicali e dai radical-chic vicini ai democratici null’altro che un attore appena bravino, un mediocre politico, un parvenu delle istituzioni e il suo progetto di ‘scudo spaziale’ contro i missili intercontinentali soprannominato hollywoodianamente “guerre stellari”. Era stato, invece, governatore bravissimo della California, che ‘pesa’ quanto lo Stato italiano. E come presidente lasciamo che sia Eduard Shevardnadze, ministro degli Esteri sovietico e poi presidente della Georgia, a offrirne la misura. Nelle sue memorie ammise che la paura che il progetto di Reagan rendesse obsolete le armi strategiche di Mosca e la strategia della “Mutua distruzione assicurata” - e, quindi, dell’equilibrio del terrore - fu a lungo esaminata al Cremlino, nei vertici del Partito comunista e del governo con i capi militari e il cerchio degli scienziati: la conclusione cui si giunse fu quella di negoziare il disarmo. E infatti, il Trattato Inf del 1987 tra Reagan e Mikhail Gorbaciov, con l’eliminazione degli euromissili (che oggi, in una sbornia di bellicismo suicida, si vuole reinstallare) significò il passaggio dal confronto armato al dialogo. La conseguenza fu l’accelerazione del crollo dell’Unione Sovietica. Donald Trump, che certamente non è del calibro di Reagan ma neppure fortunatamente del livello rasoterra di Joe Biden, viene irriso per certe sue sceneggiate che davvero potrebbe risparmiarci; o portato in giudizio perché avrebbe fatto le corna alla moglie incinta pagando con soldi non suoi la ghiotta prestazione ricevuta; o criticato – e giustamente – per la pilatesca esibizione durante il grottesco assalto al Congresso; o per rivelarsi divisivo – il suo difetto maggiore – quanto,se non più dei suoi avversari… però si tace del fatto che non abbia scatenato guerre durante la sua presidenza e per essere stato l’autore degli Accordi di Abramo tra arabi e israeliani. Mentre di Obama si ricorderà l’inizio della tragedia dell’Ucraina e di Biden lo sviluppo di questa tragedia nonché il vile abbandono dell’Afghanistan nelle mani dell’oscurantismo islamico dei talibani.

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