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Usa, sfide nascoste per la Casa Bianca

Usa, sfide nascoste per la Casa Bianca

Il presidente degli Usa, Joe Biden

“Lascio per il bene del partito e del Paese”. Prima viene il partito, poi l’America. L’ultima sua gaffe? O l’accusa a un partito che l’ha scacciato all’antivigilia del voto? Un partito colpevole, sì, ma per averlo sopportato fino alla soglia del suicidio elettorale e supportato ben oltre la decenza politica.  I libri di storia - almeno quelli che il tempo avrà liberato dall’influenza dei vincitori premiando la verità – sintetizzeranno la presidenza di Joe Biden ricordandone l’abbandono vile dell’Afghanistan e la guerra, tanto disastrosa quanto insensata, in Ucraina contro una Russia provocata attraverso un ‘accerchiamento’ Nato inspiegabilmente ostile.

O forse comprensibile dalle parole del presidente polacco Andrzej Duda alla recente pseudo-conferenza di pace in Svizzera (assente la controparte Vladimir Putin). La Russia definita ultima criminale potenza coloniale che opprime duecento nazioni compiendo spaventosi crimini, come quelli che ora commette in Ucraina:queste etnìe devono essere liberate e la Federazione russa smembrata. Frasi deliranti che indussero molti a sorvolare, il presidente della Colombia ad abbandonare i lavori e il capo di Stato della Serbia, Aleksandr Vucic,pochi giorni dopo a confessare con gli occhi umidi di ritenere che il mondo fosse sull’orlo dell’autodistruzione. Il ritiro di Biden riapre la partita presidenziale.

I Demsono divisi tra il clan - per semplificare – dei clintoniani, favorevoli a Kamala Harris, e degli obamiani, che per ora mettono avanti non uno ma due-tre nomi di personalità in ascesa dell’Asinello tenendo d’occhio sondaggi e versamenti dei sostenitori. Kamala Harris sta già incassando fondi elettorali, circa una cinquantina di milioni, ma non raccoglierebbe il sostegno unanime degli afroamericani, né quello della comunità ispanica per l’antica posizione contraria all’immigrazione facile dal confine messicano.

Ma conta sull’aiuto dei mass media, di volti di Hollywood, della pubblicità elettorale e via elencando. Essere stata indicata da Biden alla successione alla Casa Bianca le ha alienato ogni residua simpatia nel clan di Barak Obama. I rapporti tra Obama e Biden suo vice si erano progressivamente logorati. La colpa più grave di Biden è stata quella di non aver ribaltato, una volta alla Casa Bianca, la strategia del suo predecessore. Campione di chiacchiere e di azzardi, influenzato da neocon e complesso militar-industriale, Obama aveva favorito la defenestrazione del presidente ucraino democraticamente eletto, Viktor Yanukovich, la scintilla dell’incendio.

L’abbandono di Biden non ha colto Donald Trump di sorpresa. A testimoniarlo la velocità della reazione dell’ex presidente e della sua artiglieria mediatica. Ma Trump aspetta il responso dei delegati alla ‘convention’nazionale democratica, a Chicago dal 19 al 22 agosto. Il suo vero timore è che dal cappello esca la sorpresa di Michelle Obama, ritenuta capace di riassorbire gli elettori afroamericani e ispanici oggi potenziali astensionisti o tentati dal messaggio nazional-popolare del partito repubblicano. Avrebbe potuto, Trump, scegliere come vice Vivek Ramaswamy o Tulsi Gabbard, Marco Rubio o Ron De Santis, Mike Pence o la stessa Nikki Haley, insomma figure di spicco e capaci di convogliare elettori nuovi o tradizionali del partito dell’Elefantino.

Trump ha invece preferito scegliere non un vice ma l’erede. D J Vance gli assicura la ‘continuità’ - per visione politica, condivisa lentamente, e per età - del partito repubblicano così come l’ha rimodellato. E rilanciato sul palcoscenico statunitense e planetario. Ma è una scelta che rassomiglia a una scommessa. Illuminante l’intervista di Ramaswamy sui contendenti di queste presidenziali. “… Penso che non ci fosse fretta di farlo prima [scegliere un nuovo candidato democratico prima della ‘convention’ repubblicana, ndr], ma mettere in campo il nuovo burattino dopo averricevuto tutte le informazioni … La morale della storia è quella che abbiamo sempre saputo. Non ci stiamo candidando contro un uomo o una donna, bensì contro una ‘macchina’.

E non importa quale burattino mettano in campo… che si tratti di Kamala o di qualcun altro, meno ci fissiamo sull'individuo e più ci fissiamo sull’obiettivo di rompere la ‘macchina’ contro cui ci troviamo e sostenere la nostra visione… [Il meccanismo] è una classe dirigente. È lo Stato profondo, non solo nelle agenzie di tre lettere - è lì che inizia - ma un sistema che permea l'intero apparato politico, il complesso industriale dei super-Pac [le potenti organizzazioni di raccolta fondi per i candidati, ndr], il complesso industriale woke [i movimenti per il politically correct, la cancel culture, la parità di genere, l’antirazzismo, ecc. ndr]. È una ‘macchina’ che usa questi politici come burattini… Penso che abbiamo l’opportunità storica di smantellarla.

Questo il messaggio potente che noi dobbiamo trasmettere”. Virginio Ilari, noto esperto di geopolitica e storia militare, dà credito al sospetto che il piano di sostituire Biden fosse stato deciso da tempo da Obama che l’avrebbe manovrato attraverso i ‘neocon’, una “Banda dei Quattro” in versione americana: il segretario di Stato Antony Blinken, Jacob Jeremiah Sullivan già consigliere di Hillary Clinton, William Joseph Burns direttore della Cia, Victoria Nuland già vicesegretaria di Stato fino allo scorso febbraio.

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