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L'analisi
10 Agosto 2024 - 08:49
Tutto va bene, madama la marchesa. Anche lo scossone registrato sui mercati finanziari nei giorni scorsi sembra essere stato assorbito senza gravi conseguenze. Tutto ciò contribuisce a confermare e rafforzare la nostra tetragona illusione: siamo entrati in un’era d’instabilità, ma in fondo tutto ciò è in qualche modo “controllato”, quasi autoregolato dal fatto che il mondo è talmente iperconnesso che un crollo disastroso non conviene a nessuno, in quanto tutti ci perderebbero e nessuno ci guadagnerebbe. È evidente che dalla crisi del 2011-12 non abbiamo imparato nulla. Nel frattempo, mentre continuiamo a coltivare la nostra ottimistica percezione, la Banca centrale europea, cioè l’unica istituzione continentale dotata di un potere d’intervento rapido e concreto, continua a restare con le mani in mano. Un’abbronzatissima Christine Lagarde ha appena confermato che solo a settembre si tornerà a parlare di un taglio dei tassi d’interesse. Eppure, con l’economia che rallenta in maniera sempre più chiara al di qua e al di là dell’Atlantico, le banche centrali avrebbero il dovere d’intervenire. Invece niente. Dovrebbero loro indicare la rotta ai mercati, ma navigando a vista e dichiarando di voler attendere i dati economici per poi decidere, non fanno che alimentare l’incertezza. Di questo passo l’intervento rischia di essere in emergenza e pure in ritardo, sommando così due effetti deleteri: 1) un taglio dei tassi che si facesse in stato di necessità rischierebbe di minare la fiducia, perché vorrebbe dire ammettere che ci si trova in una situazione di allarme, e questo non farebbe altro che amplificare le turbolenze; 2) se la riduzione del costo del denaro avverrà ancora più in ritardo di quanto già non sia oggi, si rischierà di chiudere la stalla quando i buoi saranno già scappati. È il film che abbiamo già visto nel 2011 e poi con l’inflazione, ritenuta erroneamente «transitoria». Come se non bastasse, la stessa Bce sta innalzando i requisiti di capitale per le banche che concedono prestiti, e ciò comporta un’ulteriore stretta del credito che sta colpendo l’Italia più degli altri. Una realtà ormai registrata anche dai numeri ufficiali: in un anno gli impieghi dei primi 5 gruppi bancari italiani sono crollati di oltre 37 miliardi. La Bce dice che al 31 marzo scorso (ultimo dato disponibile) l’Italia pativa un calo del 3% rispetto allo stesso periodo del 2023, contro una media europea del +1,35%. Il minor credito concesso dalle banche italiane rispetto ai nostri competitors europei si evince anche dal rapporto tra prestiti e depositi, decisamente più basso (90,52%) rispetto sia alla media Ue (102,78%) che a Francia (106,45%), Spagna (98,73%) e Germania (114,27%). Allentare questo cappio attorno a famiglie e imprese è una decisione urgente da assumere subito. La Bce potrebbe essere almeno “costretta” ad intervenire se una manovra analoga la facesse la Banca centrale americana, ma la Fed temporeggia perché teme di essere accusata d’ingerenza nella campagna elettorale Usa: una riduzione dei tassi, infatti, verrebbe considerata da Donald Trump come un assist alla corsa di Kamala Harris. Ma le banche centrali non erano indipendenti dall’autorità politica? Se la politica monetaria mostra tutto il suo pericoloso attendismo, almeno dovrebbero essere i Governi a muoversi. Gli Usa lo hanno fatto, varando un programma di enormi sostegni all’industria. L’Europa invece è ferma, immobile. Neanche le elezioni del giugno scorso, unite alla recessione del suo polmone economico tedesco, hanno prodotto il cambiamento necessario: senza un minimo di bilancio federale, di politica industriale e d’innovazione tecnologica resteremo un enorme mercato preda di altri. Eppure una decisione concreta da assumere subito ci sarebbe: rendere permanente il Recovery Fund, pagandolo con emissioni di debito comune, per finanziare un piano industriale e infrastrutturale che nessuno, neanche la potente Germania, può fare da solo. Figuriamoci l’Italia.
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