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21 Agosto 2024 - 09:57
Si parla tanto in questo periodo dell’opportunità di dare cittadinanza a quegli immigrati che abbiano completato un ciclo di studi in Italia. Si fa appello allo ius scholae, come ha proposto Forza Italia, superando il sistema dello ius soli o dello ius sanguinis (se si nasce in Italia nel primo caso; se si nasce da genitore italiano nel secondo caso). Ci sono tanti casi in cui l’integrazione è avvenuta in modo naturale, senza ricorrere a forzature varie.
Il caso emblematico è rappresentato dall’artista italo-albanese Alfred Miraschi, in arte Milot, che dalle nostre parti è ben conosciuto per aver esposto le sue opere prima al Maschio Angioino e poi, nella primavera scorsa, l’enorme “Chiave della Pace” in piazza Mercato, dov’è rimasta installata sei mesi. La storia di Milot è una delle tante che a migliaia si accalcano nello scenario del mare Mediterraneo. Sbarcato circa trent’anni fa dall’Albania, dopo il crollo dell’ultimo regime comunista di quella Nazione, sulle coste pugliesi, fu avviato ad un campo profughi; da qui affidato ad una Comunità della Valle Caudina, sita nel Comune di Cervinara.
Qui trovò un’intera popolazione che l’accolse, quattordicenne; trovò lavoro presso una falegnameria del luogo dove collaborava per costruire infissi o riparare opere in legno. Il colpo di fortuna avvenne poco dopo: una famiglia di professionisti del luogo, con il capofamiglia avvocato Carlo Bianco, grande filosofo e letterato, pluripremiato e candidato al Nobel per la letteratura, aveva bisogno di alcuni lavoretti di falegnameria per la propria casa. Milot fu inviato ad eseguirli e ben presto ci si accorse che quel ragazzo aveva gran talento nella scultura soprattutto.
Fu un “colpo di fulmine”: il primogenito dell’avvocato Bianco, Francesco, che era tenente colonnello dell’Aeronautica in servizio all’aeroporto di Capodichino, ed era anche assessore al Comune di Napoli, si adoperò affinchè l’artista esponesse le sue opere al Maschio Angioino; fu un successo clamoroso, che proiettò Milot verso l’Accademia di Belle Arti di Brera, dove conseguì la laurea relativa. Nel tempo, poi, l’artista italo-albanese si è sposato e vive a Firenze dove ha una galleria d’arte. Non ha mai dimenticato, però, il paese che lo accolse amorevolmente, né la famiglia che lo “lanciò” nel firmamento dei grandi scultori. Fu così che l’artista realizzò un’opera mastodontica forgiata tutta in acciaio “corten” appellata la “chiave di Milot” regalandola a Cervinara, dove è installata all’ingresso della cittadina, per il “benvenuti” agli ospiti: la Chiave, infatti, vuole rappresentare lo strumento che apre le porte alla Pace Universale.
Da qui è tutto un crescendo che culmina nell’esposizione di un’altra chiave enorme esposta per sei mesi in piazza Mercato a Napoli, sempre con accanto l’amico Francesco Bianco, che lo presenta al sindaco Gaetano Manfredi, il quale concede l’autorizzazione e partecipa alla cerimonia di inaugurazione. Milot, ora conosciuto in tutto il mondo, specie in Cina, ha un figlio, Gerard, di nemmeno 17 anni, alto un metro e novanta, che ha una grande passione per il calcio; il ragazzo gioca nelle piccole squadre affiliate alla Fiorentina, come la Virtus Cattolica, che hanno partorito giocatori del calibro di Rossi, Barzagli ed altri. Il suo sogno, però, è quello di entrare nella “giovanile” del Benevento, perché ha saputo che questa squadra ha uno dei migliori settori in Italia. Anche qui, l’amico di una vita di Milot, il generale Francesco Bianco, dà una mano: contatta il presidente del Benevento, l’avvovato Oreste Vigorito, suo amico da trent’anni, e gli illustra il caso.
Il presidente accetta di farlo esaminare, con l’ovvia premessa che il ragazzo verrà preso se veramente valido. Sette giorni di prove e partite: il responso è che Gerad Miraschi ha stoffa per essere preso nelle giovanili per poi giocare anche nelle serie superiori. Sembra proprio una storia dettata dal destino: il papà del giocatore Gerard, accolto a Cervinara, paese in pieno Sannio, poi cittadino di Firenze e del mondo; il figlio che si realizza là dove il padre era stato accolto ed aveva vissuto la sua giovinezza a 15 Km. da Benevento. Un grande esempio di come l’integrazione sia possibile quando si ha disponibilità d’intenti da ambo le parti.
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