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l'analisi
23 Agosto 2024 - 10:25
Signori, ma che fine ha fatto? Come chi? Per mesi ci hanno detto che era «lo scandalo degli scandali» e che la democrazia era in pericolo. Il Procuratore nazionale antimafia, non proprio un passante qualsiasi, lo aveva definito «la punta di un iceberg più grande» e Giorgia Meloni aveva tuonato perentoria: «Bisogna andare fino in fondo, quello che sta emergendo è vergognoso». Infatti. Il problema, però, è che non se n’è saputo più nulla. Tutto silenziato.
Non si tratta del presunto complotto giudiziario che potrebbe colpire il Governo attraverso Arianna Meloni, sorella della premier, e sul quale ci sono per ora (fortunatamente) solo tante chiacchiere e poca sostanza, ma di una vicenda con molte meno chiacchiere e molta più sostanza: il cosiddetto “caso dossieraggio”. Forse qualcuno tra i lettori più attenti e con la memoria più lunga ricorderà quel grande scandalo nato lo scorso marzo dal caso degli accessi abusivi alle banche dati della Direzione nazionale antimafia, che per settimane aveva tenuto banco sulle prime pagine dei giornali e nei salotti delle principali comparsate tv.
Il quadro emerso era inquietante a dir poco, con decine di migliaia di accessi ai conti bancari di politici (soprattutto di centrodestra), vip dello spettacolo e dell’economia, ma anche di semplici cittadini. Un verminaio in grado di compromettere la fiducia stessa nelle istituzioni e nelle procedure democratiche, evidenziando il rischio potenziale di costituire un’estesa rete di pressioni, ricatti e intimidazioni. «I numeri sono molto più preoccupanti di quelli che sono emersi: si tratta di numeri inquietanti, davvero mostruosi», aveva detto un preoccupato procuratore di Perugia che indaga sulla vicenda, Raffaele Cantone, in una memorabile audizione convocata in fretta e furia davanti alla commissione Antimafia, subito dopo l’esplosione del bubbone.
Il centrodestra si era inalberato, promettendo che sarebbe andato «fino in fondo», ma poi tutto sembra essere finito nel dimenticatoio. Com’è possibile? Va bene il segreto sulle indagini, ma sarebbe la prima inchiesta dai tempi di Mani Pulite a vedere applicato alla lettera questo sacrosanto principio. Si tratterebbe davvero di un caso più unico che raro. Un caso sospetto. Ora, è evidente che l’esistenza di una banca dati che raccolga anche informazioni molto sensibili è un elemento irrinunciabile da sempre per la sicurezza nazionale e la lotta alla criminalità organizzata. Ci mancherebbe. Ma perché non ci siano abusi devono essere chiare alcune cose facili facili: chi può accedervi; che l’accesso sia sempre tracciato; chi ne sia responsabile; che esista un controllo su quanti accedono (possibilmente costituito da soggetti diversi, altrimenti diventa una farsa).
Se gli accessi sono ordinati dall’autorità giudiziaria non si chiamano “dossier” ma “indagini”, che però assumono un altro sapore quando ammesso che sia questo il caso si continuano a chiedere accessi senza esiti processuali apprezzabili. Cantone ha detto che il finanziere Pasquale Striano, uno degli indagati, «ha scaricato 33.528 file dalla banca dati della Direzione nazionale antimafia»: chi gliel’ha ordinato? O qualcuno pensa che abbia fatto tutto da solo? Striano dal canto suo ha sempre protestato di avere agito nella piena legalità e legittimità, e di avere fatto tutto su ordine dei pm. È possibile che ad essere sbagliati fossero gli ordini? È lecito chiederselo? Sarebbe interessante capirlo.
Cantone e Melillo sono magistrati molto prudenti: se in sedi ufficiali sono arrivati a parlare in modo così diffuso e soprattutto con toni così allarmati di ciò di cui erano venuti a conoscenza all’inizio dell’inchiesta, è ragionevole ritenere che non possa finire tutto a tarallucci e vino. Fatto sta che dopo la sovraesposizione iniziale del caso, l’attenzione è via via scemata. Fino ad interrompersi. Segno forse che le indagini non stanno fornendo i riscontri attesi? O che ne stanno fornendo di ancora più esplosivi? Urge una risposta. Magari in Parlamento.
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