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L'opinione
06 Settembre 2024 - 10:27
Credo sia giusto non lasciarsi condizionare dal modello sociale in cui viviamo e credo che sia necessario coglierne i limiti per non considerarlo, aprioristicamente e pedissequamente, il migliore dei mondi possibili.
Sono convinto, infatti, che il cosiddetto “Occidente”, termine abusato e inflazionato in questo periodo di confronti muscolari e di guerre vere e suscettibili di derive apocalittiche, abbia, oggi, punti di criticità notevoli che devono essere sconfitti e superati da una rivisitazione etica di certe derive che non dobbiamo dare per scontate, perché non appartengono alla nostra tradizione né alla nostra civiltà millenaria, ma, anzi, ne minano le fondamenta, diventando fattore destabilizzante.
Un sistema caratterizzato dalla trasformazione dei rapporti sociali a seconda delle esigenze di mercato, dalla supremazia del valore di scambio sull’effettivo valore d’uso, dalla fine di ogni forma di umanesimo del lavoro sostituito con il lavoro alienante, dalla progressiva scomparsa dei “mestieri” e della loro creatività, è destinato a funzionare artificialmente soltanto se progredisce in maniera costante e illimitata, perché basato sulla dismisura, sulla continua fuga in avanti, sul principio del “sempre di più” che non deve conoscere pause e remore.
Quindi, come è oramai noto a tutti, sempre più mercato, sempre più profitti, sempre più libero scambio e crescita fine a se stessa, senza limiti, regole e frontiere. Tutto questo ha portato all’ossessione parossistica per il progresso anche a discapito dell’etica e alla finanziarizzazione globale di un’economia che ha perso, ormai da tanto, ogni forma di relazione e di ancoraggio con il territorio, con le comunità, con le identità nazionali.
Porre dei correttivi a tutto ciò non significa certo voler far scomparire il mercato e le sue leggi, ma vuol dire tornare ad attribuire rilevanza anche al locale rispetto al globale assoluto, al circuito e alla filiera corti rispetto alle sole grandi catene di distribuzione interne e internazionali e poi al terzo settore, alle cooperative, alle imprese partecipate, tutte troppo sottovalutate e troppo poco valorizzate.
Sono necessari, insomma, correttivi e riforme che portino a un nuovo inizio che non si ispiri a esempi del passato, ma che sia sanamente e fortemente innovativo nel solco di una tradizione che ha saputo far grande l’Occidente, quello vero, quello dei valori, dei princìpi e dei punti di riferimento solidi.
Sostituire la dismisura della globalizzazione con il senso del limite e delle regole nella crescita, sostituire a un generico universalismo che spazia in ogni campo il valore delle identità collettive, riscoprire un’etica dell’onore anche nelle relazioni economiche, guardare sempre più a un mondo multipolare, privilegiare i valori della “comunità” rispetto a quelli asettici della “società”, impegnarsi nella salvaguardia di tutto ciò che è autentico rispetto a tutto ciò che è imitazione e surrogato, difendere fortemente il “reale” rispetto al “virtuale”, considerare il “diritto” come principio di equità nelle relazioni umane senza confonderlo con i desideri legati all’egoismo individuale o di gruppo, ritornare al rispetto tra le persone rivalutando l’importanza dell’autorità, apportatrice di equilibrio nella vita dei popoli e delle nazioni.
Ecco, queste possono essere delle buone direttrici di marcia, perché solo una continua riflessione concreta e prospettica su questi temi, indispensabile anche se difficile, potrà ridare alla Politica il suo naturale primato sulle degenerazioni dell’economia e della finanza, attribuendole, a pieno titolo, il posto che le spetta nella difesa della libertà e della dignità di tutti, nel solco di quella tradizione profonda che è alle radici della grande storia della nostra Patria e dell’Europa delle Nazioni.
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