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L'opinione
20 Settembre 2024 - 10:28
Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio
Chi la fa l’aspetti. Ma chi non la fa, ne aspetti una ancora più grossa. I casi del patteggiamento dell’ex presidente della Liguria, Giovanni Toti, e della richiesta di condanna a sei anni di carcere per il ministro Matteo Salvini, sono stati accolti con il solito profluvio di parole inutili, i consueti commenti scandalizzati, i post di solidarietà d’ordinanza e così via cianciando.
Peccato che l’elefante nella stanza sia sempre lo stesso: si chiama riforma della giustizia. Seria, profonda, costituzionale. Punto. Fino a quando chi governerà, dunque ha la possibilità di cambiare le cose esercitando il potere legislativo, rinuncerà ad adoperare quel potere per ragioni che nessuno ha il coraggio di esplicitare, le chiacchiere continueranno a restare dove sono sempre state: a zero.
Andiamo dritti al sodo: dov’è la riforma del ministro della Giustizia, Carlo Nordio? Non sarà il massimo (per nulla), ma perlomeno è un inizio, visto che contiene il segnale della separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. Da qui alla fine dell’anno il Parlamento sarà impegnato in una complicata sessione di bilancio.
Bisognerà inviare all’Europa il Piano strutturale a medio termine, scrivere la Manovra, presentarla alle Camere che poi dovranno approvarla, con tutta probabilità dopo averla emendata. Tradotto: la riforma della giustizia ce la possiamo scordare anche per quest’anno. Se ne riparlerà nel 2025. Ammesso che basti.
Purtroppo neppure l’enormità di quanto accaduto in Liguria - che prescinde da qualunque giudizio sulla colpevolezza o innocenza di Toti - ha indignato abbastanza perché alle parole seguissero i fatti. A chi, di fronte alla scelta dell’ex governatore di patteggiare la pena, ha storto il naso affermando che Toti poteva tenere duro e andare fino in fondo, va risposto che se li facesse lui vent’anni di processi.
È facile fare il paladino del garantismo in campagna elettorale e col fondoschiena degli altri. Bisognava pensarci prima. Allo stesso modo, chiedere sei anni di condanna per un ministro dell’Interno - chiunque egli sia - che ferma gli immigrati clandestini alle frontiere, è la dimostrazione plastica di quanto l’Italia sia a tutti gli effetti una Repubblica a sovranità (giudiziaria) limitata.
«Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo», ha tuonato la premier Giorgia Meloni. Se le cose stanno così, quali azioni legislative concrete il Governo intende promuovere per impedire che quel «precedente gravissimo» si manifesti nuovamente in futuro? In che modo e con quali iniziative la maggioranza parlamentare pensa di evitare che una roba del genere possa ripetersi?
Perché se qualcuno crede che bastino le chiacchiere, com’è accaduto nei trent’anni che abbiamo alle spalle, beh, allora stiamo freschi. Non è con i vaniloqui che si cambiano le cose, ma con le azioni tangibili. A volte si ha l’impressione che in fondo - cittadini comuni esclusi - questo sistema faccia comodo un po’ a tutti e che nessuno abbia davvero la voglia di cambiare nulla perché tutti gli attori, ciascuno nel suo ambito, vi trovano una certa convenienza.
I pubblici accusatori, che possono continuare a conservare il loro potere, denunciando i tentativi della politica «di mettere il bavaglio ai magistrati»; ma anche i politici, che quando vengono accusati possono fare le vittime sempre, a prescindere dalla loro innocenza o colpevolezza, con gli innegabili benefici elettorali di chi si presenta come perseguitato «dalla giustizia di parte».
Se Salvini e la Lega avessero martellato il Governo sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, mettendoci magari un quarto dell’impegno che hanno profuso per ottenere la legge sull’autonomia differenziata, forse oggi il leader del Carroccio non rischierebbe di finire dietro le sbarre. Ecco. Chi la fa (la riforma) l’aspetti. Ma chi non la fa, ne aspetti una ancora più grossa.
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