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L'opinione
23 Settembre 2024 - 09:45
Matteo Salvini
La richiesta avanzata al termine del processo “Open Arms” dalla Procura della Repubblica di Palermo di condannare a sei anni di reclusione l’attuale vice premier Matteo Salvini per il reato di sequestro di persona, ha scatenato un nuovo, grave scontro tra giudici e politica anche per l’estesa solidarietà espressa da membri della maggioranza ed esponenti di governo nei confronti del leader leghista.
Magistratura e rappresentanti dell’opposizione hanno denunciato per parte loro la grave anomalia istituzionale: il capo del Governo che esprime forte sorpresa, per così dire, dinanzi alla pesante richiesta di condanna mentre il processo è ancora in corso di svolgimento, costituisce certamente una singolarità ed indubbiamente può provocare condizionamenti – in un senso o in un altro – nei confronti del collegio chiamato a giudicare.
E questo è un dato, indiscutibile. Ma, vien da domandarsi, è del tutto normale quel che si sta svolgendo innanzi al Tribunale di Palermo? Rientra nelle fisiologiche dialettiche tra potere giudiziario e potere esecutivo che un ministro dell’Interno venga sottoposto a processo per sequestro di persona, in ragione dell’esercizio di un atto di governo ed avendo utilizzato per compierlo l’intera catena di comando del suo dicastero, ivi compresa la forza pubblica, impartendo ad essa ordini attuati alla luce del sole?
Il reato di cui all’art. 605 c. p. è un istituto giuridico pensato per punire simili condotte eseguite in un contesto ad elevata definizione normativa e nell’ambito di un’azione complessiva che risponde ad un preciso indirizzo politico del Governo? Diciamo che ad una prima reazione a base estetica al diritto – per così dire, intuitiva – quella disposizione che punisce chiunque privi taluno indebitamente della libertà personale, non sembrerebbe pensata per chi agisce emettendo provvedimenti in forza d’una legge dello Stato che li contempla.
Sembrerebbe piuttosto pensata per quegli atti arbitrari e materiali compiuti da semplici persone o pubblici ufficiali all’opera in operazioni arbitrarie e violente. L’azione del Salvini fu posta in essere ai sensi dell’articolo 1 del decreto legge 53/2019, il cosiddetto decreto sicurezza bis, che autorizza il ministro dell’Interno, tra l’altro, ad impedire l’ingresso di navi nel mare territoriale e dunque a non consentire sbarchi.
Questo il dato di legge, che dunque assegna un potere e conseguentemente rende lecita l’azione, perché posta in essere nell’esercizio di una competenza prevista da una norma. Ma il diritto è una realtà molto fluida, scivolosa, modellabile alla bisogna e piena di risorse. A quel che s’è compreso, la Procura di Palermo avrebbe sostenuto quanto segue: siccome ne sarebbe andato di diritti naturali ed universali dell’uomo – in sostanza del diritto allo sbarco perché sarebbero state a rischio vite umane, anche se nessuno pare sia morto ed una certa assistenza è stata prestata – in siffatta congiuntura nessuna legge sarebbe stata opponibile rispetto a queste posizioni soggettive protette in modo assoluto ed inconculcabile.
Sicché il Salvini avrebbe violato diritti assoluti ed universali e meriterebbe la galera, anche per un congro numero di anni. E non è escluso che avrà la sua lezione di diritto naturale. Sul piano giuridico, la tesi è sostenibile ed è stata sostenuta: una tesi forte, estrema, ma circolante nelle pagine della dottrina ed in sentenze di corti supreme, un po’ meno in quelle dei Tribunali. Ma esiste.
Il tema non è però questo: se ci si lascia incantare dal discorso giuridico, dai dispositivi argomentativi dei giuristi, questi ultimi hanno sempre ragione, trovano sempre un modo per costruire alla men peggio una teoria: è il loro mestiere, il mestiere dei sacerdotes iuris, l’hanno sempre fatto e lo faranno sempre.
La questione da porre è ben diversa: era davvero necessario avviare l’azione penale per sequestro di persona nei confronti del ministro dell’Interno, il diritto vigente davvero l’imponeva? O non devono forse ricercarsi le ragioni in quella frase intercettata al mitico dottor Palamara, che conveniva con le ragioni del Salvini ma riteneva giusto comunque perseguirlo?
Detto più semplicemente: se per far condannare il Salvini è necessario incomodare i diritti universali dell’uomo e giungere a sostenere che il ministro dell’epoca, in spregio all’indirizzo politico del Governo, sarebbe stato addirittura in dovere di disapplicare una legge dello Stato fatta proprio per quei casi, perché sarebbero stati coinvolti beni primari ed incomprimibili, non sarà forse che la magistratura ha posto in essere un’attività fortemente intrisa di politicità, non di certo ascrivibile alla neutra prevedibilità del diritto, ma collocata in apicibus, in quelle alte volute della filosofiadel diritto, i cui contenuti, essendo squisitamente valoriali, si prestano ad ogni forma di modellamento e dipendono intieramente dal punto di vista di chi li invoca ed a seconda dei propri orizzonti di aspettative?
Ora, io non dico che quel che la magistratura inquirente ha concepito all’ombra delle Madonie sia un illecito o qualcosa al di fuori del diritto; dico piuttosto che ben avrebbe potuto fare a meno di articolare un’accusa per reggere la quale bisogna stressare nella maniera più estrema gli strumenti dell’interpretazione giuridica: e dunque ha fatto qualcosa in cui il contributo del giudice – del cosiddetto interprete – è stato massimo, sconfinando per forza di cose nella dimensione politica, stante la vaghezza dei parametri normativi.
E se questo accade ponendosi al centro un’intera linea politica, non è più possibile reagire con il volto dello sdegno, quando le critiche piovono e piovono forti: perché i confini tra politica e diritto in quest’ambito sono incerti e quando li si tocca la politica è già tutta lì e l’azione penale assume significati molto precisi, che è del tutto inutile provarsi a negare.
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