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l'analisi
27 Settembre 2024 - 10:35
La lingua batte dove il dente duole. Grazie al Rapporto sulla competitività di Mario Draghi, nel dibattito politico è tornata centrale l’idea di fare debito comune europeo al fine di finanziare investimenti per la crescita: l’ex premier italiano propone un piano da 800 miliardi l’anno. Quella del debito comune è una questione divisiva, che ha subito riproposto vecchie spaccature: le Nazioni del Nord contro quelle del Sud. A guidare il fronte dei contrari, manco a dirlo, la Germania. Giorgia Meloni si è detta favorevole ma con una posizione eccessivamente timida, dettata forse dalla consapevolezza che la sua stessa maggioranza è divisa, visto che Matteo Salvini si è invece opposto all’ipotesi.
Vedere il leader leghista sulla stessa linea di quelle Nazioni nordiche che lui stesso per altri versi considera molto distanti, non si spiega se non con ragioni di pura tattica politica. Dunque contingenti. Si tratta di posizioni che testimoniano la confusione che anche a destra alberga su temi che invece sono decisivi proprio per l’Italia. Basta guardare quello che, sia pure a livello solo embrionale, è finora l’unico precedente storico di debito comune europeo: il Recovery Fund da 750 miliardi. Grazie a quel piano, varato per contrastare gli effetti economici del Covid, Roma si è aggiudicata la fetta più grossa dei finanziamenti: 191,5 miliardi. È appena il caso di ricordare che si tratta degli unici, veri denari di cui disponiamo per fare investimenti pubblici, senza i quali non avremmo alcuno spazio per agire a causa del nostro mostruoso debito.
Ovviamente spetterà a noi spendere bene le risorse, ma è evidente che ciò è stato possibile solo grazie alla rottura del tabù del debito comune. Chi si oppone conta sul fatto che lo strappo sia stato solo episodico, figlio dell’eccezionale emergenza post-pandemica e che non si ripeterà. Tuttavia, pochi ricordano che fu proprio il cambio di posizione della Germania ad essere determinante per approvare quel fondo. Le ragioni che spinsero l’allora Governo di Angela Merkel a mutare idea non sono troppo diverse da quelle che potrebbero manifestarsi oggi: prima tra tutte il fatto che Berlino è la prima economia del continente anche grazie al mercato unico europeo in cui affluiscono le sue merci.
Ma l’Europa sta precipitando nella de-industrializzazione e i tedeschi dovrebbero saperlo meglio degli altri: la Volkswagen riduce l’occupazione e vuole chiudere interi stabilimenti; la Basf lentamente ma inesorabilmente riduce la produzione; il Pil continua ad arretrare e la fiducia degli imprenditori è crollata. Se l’economia tedesca ingrana la retromarcia sono guai per tutta l’Ue, in primis l’Italia che è di gran lunga il primo partner commerciale di Berlino. Il blocco della locomotiva europea fa già parlare di prossima stagnazione dell’intera eurozona, che per una Nazione esportatrice come la Germania è il peggio che possa capitare: lo stesso rischio corso con la pandemia. Inoltre, Draghi propone di sviluppare nuove infrastrutture e aumentare gli investimenti in Africa.
Tradotto, è il Piano Mattei del Governo italiano. Ma a questa sintonia dei fatti e delle soluzioni proposte, stranamente da Palazzo Chigi non corrisponde un’iniziativa politica di adeguata forza. Se qualcuno poi s’illude che le attività indotte da un turismo straripante possano sostituire la manifattura, vuol dire che non ha capito nulla: parliamo di settori il cui valore aggiunto non è neanche lontanamente paragonabile. Occorre allora lanciare al più presto un grande piano di reindustrializzazione e sviluppo, da finanziare con debito comune Ue, da cui l’Italia avrà tutto da guadagnare. Per tali motivi è necessario che l’esecutivo Meloni assuma la leadership di questa battaglia, costruendo da subito un’alleanza con quei Governi che hanno interessi, esigenze e priorità simili alle nostre. Prima di essere costretti a farlo, com’è accaduto col Covid, sotto la pressione di una nuova crisi.
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