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29 Settembre 2024 - 10:27
Hassan Nasrallah
Come “sfogliare” un carciofo, strappare-addentare-ingoiare. Primo, eliminare i miliziani più motivati e attrezzati, quelli eternamente in contatto fra loro attraverso il cercapersone e pronti a mobilitarsi. Secondo, continuare ma freneticamente a colpire Hydra, una testa dopo l’altra, nei rifugi noti al Mossad. Terzo, schiacciare il cervello di Hezbollah, l’inafferrabile Hassan Nasrallah. Ne seguivano le tracce dal 1992, da quando ereditò la guida del movimento armato da Abbas al-Musawi, eliminato dagli israeliani. Un curriculum di tutto rispetto.
Figlio d’un fruttivendolo, otto fratelli, studi in Iraq e il debutto nella militanza con l’arrivo a Teheran di Ruhollah Khomeini. Ventiduenne, aderì a Hezbollah in occasione della prima invasione israeliana. Quindici anni dopo, la perdita di un figlio, Hadi, ucciso in uno scontro con gli israeliani. Nasrallah che aveva 64 anni s’era rivelato un fantasma che prendeva forma umana solo quand’era sicuro che non poteva essere raggiunto da un sicario o da un missile. Protetto dai suoi, dall’Intelligence iraniana e siriana e, a volte, dal momento politico o diplomatico o tattico nel quale al nemico era strumentalmente conveniente risparmiarlo. Insostituibile per Hezbollah, imbattibile come il suo partito armato per Israele.
La seconda invasione dell’Idf, le forze armate israeliane, nel 2006 si arenò dinanzi alla resistenza di Hezbollah, divenuto il più influente partito politico libanese, oltre che il braccio armato della teocrazia di Teheran. Da allora un rosario vieppiù fitto di attacchi e di sangue. Fino allo scorso 7 ottobre. Benjamin Netanyahu ha reagito alla tremenda responsabilità del fallimento di una strategia verso Hamas imperniata sulla divisione dei palestinesi e ha consumato la resa dei conti con Hamas a Gaza. S’è rivolto quindi al Libano, dove Hezbollah la più velenosa delle spine aveva svuotato gli insediamenti ebraici alla frontiera, bersagliandoli.
A Nasrallah non è bastato nascondersi nel bunker, il più profondo e il più solido e il più protetto non solo da armati ma anche da centinaia di cittadini, gente ignara. E forse neppure gli è servito travestirsi da donna avvolta nei mantelli, come Yahya Sinwar la primula rossa di Hamas… Non un drone né un missile, ma una superbomba da una tonnellata d’esplosivo per cancellare letteralmente il luogo com’era e per disintegrare il capo di Hezbollah o, nel più benevolo dei casi, direttamente seppellirlo. Mentre un vortice di fiamme e di fumo a Beirut avvolgeva il rione Dahiya, al Palazzo di Vetro di New York il premier Netanyahu confermava senza la minima emozione che il destino del Libano sarebbe di rassomigliare a Gaza, perché Hezbollah e Hamas si riparano dietro i corpi dei propri concittadini, perennemente incuranti della loro sorte: si rifugiano nelle case, negli ospedali e nelle scuole, dove nascondono e stipano armi ed esplosivi.
E all’avvertimento di ‘al Akhbar’ ad “Israele di nuovo lanciato verso una guerra totale”, ricordando il ritiro poco glorioso di diciotto anni addietro, il premier israeliano raccoglieva il guanto di sfida: come Teheran e Hamas, Hezbollah vuole non la pace bensì la fine di Israele, quindi non c’è scelta. Neppure Netanyahu crede alla coesistenza tra i due Stati: lo testimoniano gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. E finché mancherà l’alternativa, la guerra continuerà. Ma non bisogna abbandonarsi al pessimismo. Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono dietro la porta. Il rilancio eventuale degli Accordi di Abramo, attraverso un negoziato aperto all’Iran, come filtra dal quartier generale di Donald Trump, aprirebbe finalmente scenari nuovi e incoraggianti. L’unica strada per la pace in Medio Oriente porta alla capitale iraniana. Hanno finora tentato di percorrerla alla luce del sole e più spesso nell’ombra le diplomazie non solo occidentali.
E direttamente alcuni degli stessi presidenti Usa. Mosca, per i suoi rapporti con Israele e per quelli economici con l’Iran, sarebbe stata utilissima in questa crisi per schiudere l’uscio al negoziato. C’è da augurarsi che il timore per le conseguenze di un allargamento del conflitto con il coinvolgimento dell’Iran, spinga alla prudenza la teocrazia di Teheran, ch’è già alle prese con una situazione di grave crisi economica e sociale interna. E mantenga i nervi saldi in attesa che il nuovo inquilino della Casa Bianca scopra le sue carte.
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