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L'opinione
01 Ottobre 2024 - 10:01
Intere generazioni del Novecento hanno attraversato i loro anni nel segno dell’ ascetismo. Disperatamente protesi verso i propri traguardi, quasi inconsapevoli della salvaguardia del proprio ego. Una tendenza luterana, protestante della vita, quasi dimentica di ogni spazio legato ai propri giorni.
Certo, erano anni fortemente competitivi, in cui tutti spingevano disperatamente sull’acceleratore e non c’erano sostanzialmente alternative. Oggi la generazione Z ci offre l’altra faccia della medaglia. Nessuno si deve più impadronire della tua vita. Meglio disoccupato che iperstressato, questa la sintesi del presente.
Nessuno, insomma, vuol più sacrificare la propria esistenza al lavoro e alla carriera. Impegnarsi quanto basta, non di più, senza identificarsi mai in una semplice risorsa umana. L’impiego, insomma, non è più una religione. In Usa si chiama “quiet quitting“, uscita silenziosa. Un orizzonte quasi imperscrutabile per i figli del Novecento. La vera realtà è che la nostra generazione usciva dagli anni difficili della guerra, da epoche di sacrifici intensi, in larga parte rurali, contadini. Aveva bussole diverse. Ed esempi illuminanti cui tendere costantemente.
Cos’è rimasto di tutto questo oggi sul setaccio della contemporaneità? Decisamente poco, quasi nulla. Tutto si tracima nel quotidiano sulla spinta di un edonismo quasi sfrenato. Ogni valutazione resta legata semplicemente al denaro. Prestigio, autorevolezza, cultura sono valori che, paradossalmente, sembrano lasciare il tempo che trovano. Mentre ognuno, al di là della maschera indossata quotidianamente, si sente più anonimo e solo nelle pieghe della propria vita.
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