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La riflessione
02 Ottobre 2024 - 10:05
Su alcuni giornali e su alcune reti televisive ben note per essere schierate a sinistra quella sinistra salottiera, supponente, snob e autoreferenziale che tutti oramai ben conosciamo imperversano i soliti monologhi sul tema dell’egemonia culturale e della superiorità antropologica che il “milieu” letterario saccentemente progressista ritiene di possedere nei confronti della cultura di Destra e della visione del mondo di cui la Destra di governo intende essere interprete.
A tutti costoro desidero raccontare una storia tutta napoletana. Si racconta che Carlo III di Borbone voleva entrare in possesso di un elefante per il suo zoo di Portici, ricco di animali esotici. Di questa storia esistono due versioni, una vera e l’altra ufficiale: la prima racconta delle pressioni fatte dal Re al suo incaricato di affari in Turchia, il Conte Finocchietti, affinché gli procurasse un elefante per il suo giardino, la seconda narra che l’elefante era stato un dono del Gran Sultano a Carlo III. Il Conte sapeva che in Turchia non c’erano elefanti, per cui, nell’impossibilità di procurarsene uno, disse che l’acquisto sarebbe costato una somma enorme, ma il Re insisteva e quindi il Conte si rivolse ad un suo amico, l’Ambasciatore di Persia in Turchia, chiedendo di venirgli in aiuto.
Questi inviò proprie persone in India che ritornarono con l’elefante, dopo averlo pagato profumatamente. Per sfuggire alle critiche che potevano esser fatte a fronte diuna spesa così elevata, si disse in giro che l’elefante era stato un omaggio del Sultano, in cambio di antichi marmi trovati ad Ercolano e questa fu la versione ufficiale. Quando finalmente l’elefante arrivò a Napoli fra lo stupore dei cittadini, fu messo nei giardini reali di Portici in modo che tutti potessero ammirarlo e, addirittura, alla sua premurosa assistenza fu comandato un militare, un caporale che doveva accudirlo.
Si racconta che il caporale si vestì con una bella divisa gallonata e prese l’abitudine di pavoneggiarsi in presenza del pubblico, guadagnando anche qualcosa sottobanco per fare accarezzare il pachiderma: si sentiva importante, anche perché l’elefante calcò pure le tavole del Teatro San Carlo, nell’opera “Alessandro nelle Indie”. Il mantenimento dell’animale costava tantissimo, fra il cibo per il pachiderma e gli stipendi per i custodi, ma pochissimi anni dopo l’elefante morì e il caporale fu costretto a ritornare all’anonimato nei ranghi dell’esercito, senza più il luccichio della sua bella divisa e l’importanza di cui si vantava.
Era insomma destinato a essere dimenticato e allora il popolo,per sottolinearne, con sarcasmo,il ritorno al modesto posto che gli era appartenuto in origine, coniò la frase “Capora’, è muorto l’alifante”, modo di dire che viene usato ancora oggi, a Napoli, per indicare la caduta di un qualcuno che si credeva importante e superiore agli altri e che ora, di fatto, non conta più nulla. La saggezza popolare è spesso maestra di vita.
E dunque questa storia e la sua conclusione, siano esse vere o frutto di scherzose fantasie tramandate nel tempo, le ho raccontate con piacere a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi, ma le dedico, con garbo, al colorato mondo con l’intelligenza in disarmo di cui abbiamo accennato all’inizio, perché qualcuno si renda conto che c’è un tempo per tutte le cose e che vanagloria e presunzione, piaccia o meno, sono inevitabilmente soggette a scadenza, come ogni egemonia politica costruita ad arte, con superbia e conformismo.
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