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L'intervento
06 Ottobre 2024 - 09:53
Nelle pagine dello “Zibaldone” si ha, in Giacomo Leopardi, il passaggio dal verismo al pessimismo, dalla visione del mondo in cui la Natura è benefica e il dolore può essere superato, alla percezione di un problema più profondo che sfocia in quel concetto di universale rovina in cui annegano gli ultimi guizzi della fede del Poeta e gli ultimi bagliori di ogni speranza. Che cosa impedì allo spirito di questo grande poeta di fermarsi alla visione ottimistica della natura e riversarvi anche l’interpretazione del Destino, facendolo deviare invece verso la visione della catastrofe? Credo proprio che di sicuro non lo sapremo mai.
E così Giacomo avanza velocemente verso la morte, confondendola con le originistesse della vita. Una voce di distruzione che pare racchiudersi nella terribile frase di uno dei suoi dialoghi, “Io non invidio i posteri, io invidio i morti” e giunge fino a noi ricordando il dolore, ma rasserenando, ricordando le acerbità della vita e riconciliandosi con essa, additando il nemico e destando il coraggio per affrontarlo e combatterlo, staccandosi dalla fede e avvicinandosi a noi, atutto il genere umano. Fra tanti poeti che hanno dato agli uomini il breviario dell’azione, Leopardi dà a noi il breviario della comprensione.
E non è cosa da poco perché il Poeta non si limita a cantare il dolore, ma si avventa sulle sue radici per metterle a nudo sotto i nostri occhi, inestirpabili, indistruttibili e ci conforta così, perché è proprio vero che peralleviare il dolore giova più comprenderlo che negarlo. Aiutandoci a comprenderlo, egli ci aiuta ad agire e il suo lamento è spesso uno sprone a reagire in maniera più forte di ogni apparente esaltazione fragorosa di potenza e di orgoglio. Giacomo a una sola certezza non si sottrae: al fatto che l’uomo nulla sa, che nulla è, che nulla può sperare dopo la morte, che il nulla travolge necessariamente i singoli e le folle, dando alla storia di tutti, al cammino di tutti, la forma imprevedibile del “Destino”.
Nel “Canto di un pastore errante dell’Asia”, fra l’imperturbabilità delle cose e l’angoscia fatale del vivere, il Poeta fa nascere, dalla dualità tra l’uomo e il tutto che lo circonda, il problema del Destino. Ma il problema è posto senza che il forse si trasformi mai nel trionfo della negazione eil dubbio nell’invettiva. In quel “dimmi, perché?” rivolto alla luna, che si ripete in sei strofe meravigliose e sofferte dove Giacomo, il più accorato dei mortali, invoca a un Dio invisibile e taciturno di rivelarsi, è racchiuso il terrore dell’enigma irrisolvibile, ma c’è anche la segreta speranza che finalmente sia pronunciata una parola rivelatrice.
Quel pastore, spingendosi innanzi al proprio gregge attraverso le pianure sterminate dell’Asia, sembra avere quasi fiducia nella pienezza della vita che è nel grembo di un continente che ha visto l’alba dell’uomo e il passaggio dei popoli e dove, da millenni, tutto nasce, tutto muore e tutto si rinnova senza interruzione.Perciò questo canto è per me un canto di sconforto, ma non di annientamento, dove l’appello impaziente all’amica luna si chiude, di volta in volta, con un cocente dolore e la speranza lentamente si affievolisce, ma sopravvive sempre.
E così Giacomo sembra avvicinarsi, a tratti, a questa o aquella scuola filosofica, senza però aderire mai ad alcuna: le scuole non sono fatte per lui che non ha certo l’indole del discepolo perché Giacomo è stato e resta un gigante del Pensiero e della Poesia proprio perché è lui e basta e in questostanno il suo fascino e la sua grandezza e proprio per questo lo amiamo.
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