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11 Ottobre 2024 - 10:44
Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti
Male interpretato? Mah, può darsi. Quello che è certo è che Giancarlo Giorgetti ha fatto bene a puntare il dito per dire che il re è nudo. Pare che Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani si siano infuriati con il ministro dell’Economia per via delle sue frasi sulla Manovra che richiederebbe il «sacrificio di tutti». La verità fa male, ma la questione è abbastanza semplice. La premier è stata costretta ad intervenire con un video per assicurare che di aumentare le tasse non se ne parla neanche. Lo ha fatto per provare a mettere un po’ d’ordine dopo giorni di messaggi confusi e contrastanti su aumenti d’imposte che nell’ordine potrebbero colpire banche, assicurazioni, industria della difesa, automobilisti e proprietari di casa.
Ha fatto bene, ma ora bisogna indicare dove si vanno a prendere i 10 miliardi dei circa 22 che ancora mancano all’appello per finanziare la Manovra. Continuare a rivendicare la superiorità del Pil italico su quello francese e tedesco, soltanto perché Parigi attraversa una crisi profonda e Berlino è in recessione, serve a poco. Insomma, il tempo della narrazione è finito. Giorgetti è stato il primo a dirlo. Tutto qui. Il Governo sembra che abbia promesso all’Europa di ridurre il deficit al 2,8% entro il 2026: ha fatto benissimo non perché ce lo chiede Bruxelles, ma perché ridurre deficit e debito è nell’interesse innanzitutto dell’Italia. Tuttavia, avete idea di quanto costi un simile processo? Altro che accise sui carburanti. Altro che sigarette. Servirà mettere mano con la falce. Il problema è sempre lo stesso. E tutti i tentativi di rinviarlo finiscono solo per aumentare il prezzo che dovremo pagare al momento della resa dei conti, cioè quando le scelte non saranno più rimandabili e dovranno essere prese per forza, sotto la pressione della realtà.
Finendo così per essere più dolorose. Piccola premessa: 1) il reddito, quello che tutti noi, cittadini e imprese, produciamo ogni giorno lavorando duro, è roba nostra, non dello Stato. 2) Maggiore è il reddito che resta nelle tasche delle persone e nelle casse delle aziende, maggiore è l’incentivo a guadagnarne di più, di conseguenza maggiore la probabilità che esso venga speso. E se spendo di più lo Stato incassa di più. 3) Ergo: con meno tasse ci guadagnano i cittadini e l’Erario. 4) È necessario prelevare una certa quota di risorse collettive per garantire il funzionamento dello Stato, la tutela dei più deboli, la sanità, il welfare e tutto il resto.
Fatta questa doverosa premessa, se il costo di tutto ciò, ovvero la pressione fiscale al netto dell’evasione, supera il 50% diventa un tassassinio. Per questa ragione è cosa buona e giusta ridurre le imposte. Tuttavia c’è un solo modo per farlo: tagliando la spesa pubblica. Punto. È lo Stato che deve dimagrire. Chi frena questa soluzione, affermando che ridurre la spesa pubblica è recessivo, dice solo una mezza verità. Innanzitutto perché ad essere tagliata dovrebbe essere la spesa corrente, non certo quella per investimenti. Ma soprattutto perché i benefici derivanti dalla riduzione fiscale che quel taglio andrebbe a finanziare, sarebbero di gran lunga superiori ai costi.
Tagliare le tasse in maniera significativa ed apprezzabile a cittadini e imprese, infatti, accrescerebbe l’incentivo a investire; renderebbe meno conveniente l’erosione di base imponibile e l’elusione delle imposte; farebbe emergere almeno una parte del sommerso e tutto ciò stimolerebbe reddito, produzione e occupazione, aumentando per questa via il gettito fiscale col quale finanziare nuovi investimenti e alimentare questo circolo virtuoso. Altro che farneticazioni su una nuova quota 100. Non è sulle pensioni che vanno messi i pochi soldi che ci sono, ma sul lavoro e la produzione di reddito. È così che si garantisce l’equilibrio del sistema previdenziale. Occorre coraggio per intraprendere questa strada? Certamente sì. Non era stata Meloni a dire che «stiamo facendo la storia?». Bene, allora la faccia. E non la confonda con la cronaca.
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