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L'opinione
14 Ottobre 2024 - 08:38
Non ha avuto il risalto che avrebbe meritato la notizia della – mite – condanna ad otto mesi di reclusione inflitta dal Tribunale di Brescia in primo grado ai pubblici ministeri Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio. Si tratta della nota vicenda passata mediaticamente per il processo Eni-Nigeria, in cui era imputato l’amministratore delegato della holding energetica dello Stato Claudio Descalzi, raggiunto dalle accuse d’un ex dirigente, Vincenzo Armanna, che favoleggiava d’un vorticoso giro di tangenti.
Senza farla lunga, s’era scoperto, nel frattempo, che l’accusatore, oltre ad avere ragioni di forte acrimonia personale (era stato licenziato), era implicato in una non chiara situazione con un proprio teste, con il quale erano circolate non irrilevanti somme di danaro rilevanti, che ne potevano seriamente incrinare la credibilità.
E benché questi elementi di prova a discarico fossero stati messi a disposizione dei due pm – De Pasquale e Spadaro – il duo s’era rifiutato di portarle a conoscenza del collegio giudicante, con ciò sottraendo dati di fatto obiettivamente rilevanti alla valutazione dei giudici, in violazione del principio secondo il quale i pubblici ministeri dovrebbero non solo accusare gli imputati, ma anche ricercare le prove a loro favore, perché impegnati – in quanto procuratori della ‘Repubblica’ – alla ricostruzione della verità.
Secondo prevede l’art. 358 del codice di procedura penale, il pubblico ministero dovrebbe svolgere ‘accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini’. Chiunque abbia anche vaga esperienza di come vanno effettivamente le cose, se la ride – o se la piange – d’una simile cattolicissima disposizione, frutto d’ipocrisia idealistica, alla quale nella sostanza non corrisponde alcunché.
Ma è una disposizione sulla quale ancora oggi si fa leva per opporsi ad una riforma di civiltà, quella di riconoscere che il pm non ha nulla da spartire con il giudice, men che mai dovrebbe condividerne l’estrazione e la carriera, pena il saldarsi d’una corporazione foriera d’ingiustizie. Ma quella norma ipocrita consente di resistere – come ha fatto ancor di recente il vecchio procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati sulla rivista della magistratura di sinistra “Questione giustizia”.
Egli ha scritto che il pm può essere definito ‘avvocato dell’accusa’ (conio, quest’ultimo, berlusconiano) “solo a patto che si precisi: ‘avvocato della pubblica accusa’ e, dunque, con ruolo e doveri radicalmente distinti dall’‘avvocato della difesa’. Il pm ha un duplice volto: costruisce e sostiene l’accusa, ma come parte pubblica ha un dovere di verità che lo differenzia radicalmente dall’avvocato difensore”.
Il ragionamento dell’ex procuratore capo meneghino – del quale il De Pasquale e lo Spadaro erano sottoposti – non fa una piega: semplicemente perché è un ragionamento formale – formalistico – che muove dalle norme astratte e prescinde dalla realtà effettuale: tipico argomentare ‘scolastico’ che in luogo di partire dalla realtà quale concretamente si presenta all’osservazione fenomenologica, muove da un sistema ideale – magari rappresentato in norme vigenti soltanto sulla carta – per trarne non disinteressatamente coerenti conclusioni.
Diciamo che questo era il modo d’argomentare proprio di chi nel medioevo ragionava prima s’avesse la rivoluzione copernicana: si stabiliva che certi principi dovessero avere valore – allora su base teologica, oggi giuridico-formale – e da ciò si discettava, derivandone che il sole girava intorno al mondo, perché quest’ultimo creazione di Dio, insieme all’uomo fatto a sua immagine e somiglianza.
E s’ignorava quel che la realtà declamava sempre più inconculcabilmente, magari mandando se del caso anche qualcuno al rogo o almeno imponendo l’abiura. Poi sono venuti appunto Copernico, Tycho Brahe, Galilei, Leonardo, Montaigne, insomma il pensiero moderno e tutta la rivoluzione scientifica, e s’è compreso che la conoscenza funziona all’incontrario: induttivamente, osservando la realtà, fortificati da domande che l’esperienza stessa ha affinato nel tempo, rendendole ineludibili. Ed elaborando su questa base regole per guidare le successive realizzazioni umane, indirizzando condotte razionali.
Per quel che io ne so, radi pubblici ministeri s’affannano a ricercare prove a favore degli indagati: è questo il compito precipuo della difesa – che viene a tal uopo adeguatamente compensata – e non potrebbe che essere così: è semplicemente inumano immaginare investigatori che tentano di dimostrare colpevolezze, continuamente distolti dal loro percorso inquisitorio per percorrere vie contrapposte (di cui peraltro ben poco sanno) a favore degli indagati.
È anzitutto il buon senso a smentire una simile oleografica rappresentazione: chi investiga, investiga, chi difende, difende: differenti disposizioni d’animo, epistemologiche epratiche. Certo, la vicenda Spadaro/De Pasquale, suggerisce anche dell’altro, se confermata: che, posti dinanzi alle prove a discarico fornite da un collega della medesima Procura, i due non le hanno presentate a chi avrebbe avuto il dovere di giudicarle, il Tribunale. Quindi, non che non abbiano ricercate prove a discarico, ma che le avrebbero addirittura nascoste, pur disponendone.
Ora, non so quante volte queste condotte si sian potute ripetere da parte dei pm, lascio agli statistici. Di certo, bisognerebbe fare i conti con la realtà, prima di parlare di cultura della giurisdizione da preservare per i titolari dell’accusa che, se separati dai giudici, si trasformerebbero in nerboruti poliziotti. Io dei poliziotti ho una discreta fiducia, stanno sulle cose in via diretta.
A me pare che la realtà sia diversa: chi accusa ed investiga è una parte con precisi obiettivi ed interessi: ottenere condanna. Chi giudica è soggetto terzo, con l’unica prospettiva di ricercare – non la verità, meta divina – bensì più sommessamente l’attendibilità delle prove a carico e discarico. Elementare Watson, e le due cose non possono essere confuse.
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