Tutte le novità
L'opinione
23 Ottobre 2024 - 09:13
Nel colloquio medico-paziente, l’ascolto rappresenta la parte più importante: è fondamentale ascoltare il paziente in silenzio, mantenendo la massima attenzione a ciò che dice e alle parole che utilizza. L’attenzione che il medico dedica al paziente fa sì che quest’ultimo si senta accettato e riconosciuto, ed è proprio in questa fase che si instaura il rapporto di fiducia con il medico.
Generalmente, dopo aver descritto il motivo della visita, il dolore, la sua localizzazione e la durata, quando il paziente percepisce di essere ascoltato con attenzione, spesso comincia a raccontare di sé, del proprio vissuto, del lavoro o della famiglia. Questa fase è cruciale per stabilire la causa del dolore, ovvero se esso abbia solo origini organiche o anche psicologiche.
È in questo momento che il medico inizia a orientarsi sulla natura del dolore, che nel nostro caso riguarda spesso l’area cranio-facciale o temporomandibolare, con ripercussioni muscolo-tensive sui muscoli del collo o sul primo tratto cervicale. Ne consegue che, in questi casi, il percorso terapeutico non si limita all’ambito odontoiatrico: è necessaria una accurata analisi gnatologica (cioè una valutazione dei corretti rapporti tra le arcate dentarie), supportata da un esame elettromiografico (EMG) per individuare eventuali disarticolazioni o cattive occlusioni, spesso dovute a lavori protesici precedenti o terapie ortodontiche mal riuscite. Inoltre, può essere indispensabile il coinvolgimento di uno psicoterapeuta per affrontare la terapia in sinergia.
Tornando al colloquio, nel momento in cui il paziente si racconta, spesso emerge una parola ricorrente, una parola dominante. Questa, secondo Jacques Lacan, può essere definita una “parola-proiettile”, un termine che ha radici profonde, spesso risalenti all’infanzia. Facciamo un esempio: immaginiamo un bambino che ha ricevuto un’educazione troppo rigida da parte dei genitori, i quali, per costringerlo a fare qualcosa che non voleva, lo chiamavano “pauroso”.
Crescendo, anche se diventa un adulto con incarichi importanti, “pauroso” resta un marchio di fabbrica. Ora, se questo individuo deve affrontare una seduta chirurgica, è importante non usare quella parola, come ad esempio “non sia pauroso”, poiché potrebbe riattivare vecchie insicurezze. Al contrario, utilizzare parole positive, come “stia tranquillo, faremo in un attimo”, può agire come un farmaco. Ricordiamoci quindi del potere delle parole e del fatto che le parole compiono atti.
È fondamentale scegliere sempre le parole giuste, non essere immediati nel colloquio ma riflessivi, poiché esiste una relazione tra parola e realtà, non solo quella attuale ma anche quella del passato. La parola nomina la realtà e ha il potere di evocare e riportare nel presente il passato, perché la parola che viene detta interagisce con il patrimonio linguistico e affettivo dell’interlocutore, incluse quelle parole che hanno un valore critico. Queste parole riemergono e possono risvegliare ricordi gioiosi o dolorosi, generando reazioni emotive. La parola, dunque, non è solo un atto di nominazione, ma anche di generazione di fatti: essa può riportare alla luce un passato che, sebbene trasformato, non si cancella mai del tutto.
Copyright @ - Nuovo Giornale Roma Società Cooperativa - Corso Garibaldi, 32 - Napoli - 80142 - Partita Iva 07406411210 - La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo - Il giornale aderisce alla FILE (Federazione Italiana Liberi Editori) e all'IAP (Istituto di autodisciplina pubblicitaria) Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo giornale può essere riprodotta con alcun mezzo e/o diffusa in alcun modo e a qualsiasi titolo