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l'analisi
25 Ottobre 2024 - 10:17
Non si torna più indietro. L’appello esplicito a sabotare e togliersi dai piedi il Governo di centrodestra, circolato via mail tra alcuni esponenti della corrente di sinistra della magistratura, è una sveglia per i tiepidi e i pavidi. Il tutto è accaduto a poche ore dalla decisione con la quale i giudici hanno imposto il ritorno in Italia degli immigrati che erano stati trasferiti in Albania, senza aggiungere né togliere nulla a quanto già non si sapesse. Ovvero che una parte politicizzata delle toghe continua ad essere al servizio di un’ideologia. Che è sempre la stessa.
Sono giorni che si celebra, per via di un film, la figura di Enrico Berlinguer. Bene. Anzi, male. Perché fu proprio la battaglia berlingueriana per un’inesistente “diversità comunista”, diventata subito questione morale, la radice ultima del giustizialismo e della politicizzazione più estrema della magistratura. Furono loro, i «ragazzi di Berlinguer» i D’Alema, gli Occhetto, i Veltroni, i Violante (l’unico ad aver cambiato registro col coraggio di farlo pubblicamente, applausi) e tanti altri a raccogliere sul piano di una spregiudicata azione politica l’originaria istanza del leader comunista, teorizzando la via giudiziaria alla conquista del potere. Prima utilizzando Mani pulite per distruggere l’arcinemico Bettino Craxi, poi per tentare la stessa operazione con Silvio Berlusconi.
Lo scontro totale che in queste ore sta opponendo Giorgia Meloni e Carlo Nordio all’Associazione nazionale magistrati sui migranti, per certi versi è benvenuto perché potenzialmente chiarificatore. La ragione è semplice. Parliamoci fuori dai denti: è sotto gli occhi di tutti che sulla giustizia una parte della maggioranza, fin dall’inizio della legislatura, si sia adoperata per parlare molto e fare molto poco. Ci sono voluti due anni per mettere nero su bianco e far partire l’iter parlamentare di uno straccio di riforma per la separazione delle carriere. Una fatica di Sisifo che ha dovuto fare i conti con continui rinvii e frenate, ancorché sotterranee, mai veramente esplicitate e per questo ancora più subdole e pericolose.
È chiaro che dopo quanto sta accadendo in questi giorni, con l’attacco frontale della corrente di sinistra delle toghe a Meloni, definita «un pericolo più forte di Berlusconi» cui è necessario «porre rimedio» (un gran complimento, a giudicare dal pulpito), nessuno nella maggioranza può più pensare di usare il guanto di velluto. Il timore di reazioni da parte di un Ordine trasfiguratosi in contropotere dello Stato è umanamente comprensibile, ma politicamente non più giustificabile. D’altra parte, il segnale inviato dalla stessa premier, con il varo a spron battuto di un decreto per provare a ripristinare la separazione dei poteri e dunque lo Stato di diritto, è un segnale chiarissimo. Un cambio di passo netto rispetto a certe timidezze che hanno contrassegnato i primi due anni di governo, che non può essere ignorato.
Il minimo che ci si può attendere per coerenza è ora un rilancio e un’accelerazione della riforma costituzionale della giustizia. Chi vivrà vedrà. Nello specifico della vicenda di questi giorni invece, le cose sono abbastanza chiare: la sentenza della Corte Ue non è stata disapplicata dall’Italia, ma usata strumentalmente per sabotare l’accordo Italia-Albania (tutt’altro che perfetto) sui migranti. La definizione di “Paese sicuro”, infatti, non può spettare alla magistratura, perché si tratta di una valutazione essenzialmente politico-diplomatica: un esercizio che, fermo restando il rispetto dei principi del diritto internazionale, è una delle espressioni della sovranità dello Stato.
Che diavolo c’entra la magistratura? Nulla. I Paesi sicuri sono stabiliti dalle Nazioni, mica dalle toghe. Per questo la sentenza della Corte Ue non può essere posta a fondamento di un’azione per bloccare di fatto i rimpatri. Punto. Il resto è strumentalizzazione politica. Che la notte della giustizia ci porti l’Alba(nia) delle riforme. Quelle vere.
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