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l'analisi
28 Ottobre 2024 - 09:20
I rapporti tra Magistratura e Governo in Italia danno continue conferme della teoria dell’eterno ritorno nietzschiano: è una sorta di coazione a ripetere, un ciclo che si riavvolge su se stesso, ripetitivamente, in una cieca volontà di potenza, che però non ha vie d’uscita: serve a sopravvivere senza troppo domandarsi perché. Ovviamente, ironizzo e come sempre quando s’ironizza, non si sa fin dove si spinge la provocazione e quando invece tien luogo la verità o quella che chi ironizza ritiene per tale. Insomma: siamo punto e daccapo.
Il Governo avvia l’esperienza del centro d’accoglienza in Albania per migranti di cui verificare il diritto alla permanenza in Italia, ed il Tribunale di Roma smonta in men che meno il meccanismo appena allestito. Nel frattempo, altra pietra dello scandalo: un Sostituto Procuratore Generale della Suprema Corte di Cassazione – non esattamente un quivis de populo, ma un togato rifinito che dovrebbe essere aduso a tener la lingua a posto, come insegna il diritto – ha affermato che «Meloni non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi non si muove per interessi personali ma per visioni politiche e questo la rende molto più forte, e anche molto più pericolosa la sua azione»; soggiungendo, a quel che ho compreso, qualche tempo dopo: «Non dobbiamo fare opposizione politica, ma difendere la giurisdizione e il diritto dei cittadini a un giudice indipendente. Senza timidezze». Procediamo con ordine.
La decisione del Tribunale di Roma sembrerebbe abbastanza accettabile: in effetti, il Paese di provenienza dei migranti era definito dallo stesso Governo‘parzialmente’ insicuro, e la recente giurisprudenza europea haaffermato che basta la parziale insicurezza per impedire di non rimpatriare gli sciagurati sbarcati sul nostro territorio. Il problema è evidentemente un altro. A parte che da più che quarantennale giurista pratico e teorico non ho mai visto una decisione giudiziale che fosse davvero necessitata: il diritto non ha le caratteristiche della matematica e si presta all’interpretazione, essendo fatto di vaghe parole: sicché la decisione è certamente – ma, va detto, anche inevitabilmente – frutto di valutazioni soggettive del giudice. Il problema è quello della credibilità dei giudici, in quanto tali.
Se dalla mattina alla sera i giudici riempiono la propria bocca di rivendicazioni associative a contenuto squisitamente politico – la giudice del Tribunale di Roma alla quale è stata simbolicamente imputata la decisione, è tra i più rappresentativi magistrati della corrente di sinistra dell’ANM, Magistratura democratica – non possono poi lamentarsi con abito da candidi virgulti che nel momento in cui assumono decisioni con oggettiva valenza politica siano sottoposti al legittimo sospetto che politica abbiano fatto con quella decisione: la politica non ha i formalismi del diritto, è riconosciuta per tale, quando nella comunità la si sente tale.
Si ha voglia di gridare allo scandalo dell’assalto governativo ai giudici,ma se i giudici non si tengono lontani, lontanissimi dalla politica – come richiede la loro altissima funzione di giudicare il prossimo, delle cui debolezze sono pienamente partecipi ma almeno devono simulare credibilmente di non parteciparne – è chiaro che quando decidono su vicende che interessano la Polis, non potranno rivendicare il rispetto d’una terzietà che non hanno coltivato credibilmente nel passato, immischiandosi in gareggi che avrebbero dovuto ne riguardare né attraversare la Magistratura.
Diversa cosa, però, le affermazioni del Sostituto Procuratore Generale della Corte di Cassazione – istituzione chiamata ad offrire l’esatta interpretazione della legge: in pratica il regolo del diritto – Marco Paternello, a mia memoria anche segretario, in passato del CSM, altro organo ineffabile dell’organizzazione della Magistratura italiana. Costui ha parlato da politico, indiscutibilmente. Ha espresso un giudizio sul nemico di schmittiana memoria – secondo il grande pubblicista tedesco, la politica si articola sulla coppia dialettica amico/nemico – perché è il nemico ad essere pericoloso, pericoloso in questo caso in quanto non sottoposto alla premurosa cura d’inchieste giudiziarie e dunque inidoneo al condizionamento da parte dell’inquisizione magistratuale, sapiente, incontrollabile, inopponibile.
Evidentemente, la foglia di fico aggiunta nell’esortare a non fare ‘opposizione politica’ ma ‘a difendere la giurisdizione ed il diritto dei cittadini a un giudice indipendente’, una foglia di fico è, nulla più. È un tentativo di riqualificare attraverso meri nominalismi(tipici del giurista), una strategia d’opposizione politica alla linea legislativa dell’attuale maggioranza parlamentare che, nel suo pieno diritto sta perseguendo un obiettivo di riduzione della politicizzazione della nostrana Magistratura: la quale ospita presso la Suprema Corte, magistrati – per carità dio, pienamente attrezzati sul piano tecnico – con un habitus mentale che li dispone alla strategia politica, tale al punto da richiamare i colleghi ad un’azione comune, nei confronti d’un Parlamento – perché del Parlamento, sullo sfondo si tratta – considerato pericolo, giacchénon sottoposto a procedimenti giudiziari e dunque non svergognabile alla bisogna.
Quel che non s’è compreso dalla politica – mi pare – è che queste terribili involuzioni si possono contrastare solo intervenendo in radice: studiando il modo – legittimo e corretto – d’estirpare la malapianta della politicizzazione da un apparato burocratico che non risponde alle regole della politica, pur coltivando di questa i compiti più squisiti. E in ciò, c’entra poco la separazione delle carriere.
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