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L'opinione
31 Ottobre 2024 - 10:13
Oggi si parla tanto della necessità di favorire l’immigrazione per sopperire alla mancanza di forza lavoro, soprattutto in determinati settori produttivi. È diventato quasi un “mantra”, recitato con faciloneria e superficialità, senza approfondimenti e senza valutazioni che non siano meramente utilitaristiche.
Credo che in questi ragionamenti ci sia un qualcosa di fortemente distorto e ingiusto. In primo luogo, nei confronti degli immigrati stessi perché vengono considerati un esclusivo fattore produttivo, semplice forza lavoro intercambiabile di cui un certo capitalismo ha bisogno per mantenere alto - e il più possibile a basso costo - ilmargine di profitto in determinati settori produttivi.
In secondo luogo, perché ci si dimentica troppo facilmente e cinicamente che, considerando gli immigrati un semplice strumento di produzione, si cancella o si considera irrilevante ciò che c’è dietro la semplice forza lavoro:abitudini, stili di vita, valori, culture diverse, diverse visioni del mondo. Riducendo gli immigrati a una semplice necessità a supporto della nostra economia, insomma, si nascondono sotto il tappeto quei fattori extra economici che abbiamo citato e che finiscono per essere molto importanti per un mondo del lavoro vivo, pulsante, fatto di relazioni, di interazioni, di rapporti e non di semplice necessità di braccia.
Oggi l’attività economica può svolgersi efficacemente solo su basi culturali e progettuali solide, in un contesto sociale caratterizzato da vincoli di fiducia interpersonale, mentre,dove il cemento sociale è degradato o poco compatto, i riflessi negativi sulle attività economiche sono evidenti.
Ne consegue che l’immigrazione economica generalizzata, proveniente da culture profondamente differenti che non accettano o accettano solo formalmente l’integrazione nel nostro contesto sociale, non è affatto un valido strumento di crescita per l’economia e degrada, molto rapidamente, in forme di sfruttamento e di semplice ricerca di mano d’opera a basso costo che, nel lungo periodo, determinano o accentuano la frammentazione della società, arrecando quindi un danno alla stessa e allosviluppo sociale ed economicodel sistema paese.
Se un tempo sono state le campagne a offrire il vivaio di manodopera alle città e alla loro industrializzazione, oggi si punta, sbagliando, a sostituire quei flussi, oramai da tempo esauriti, con i flussi di immigrazione “economica”. Occorrono sempre più “risorse umane” per crescere ancora e ancora. Il retroterra culturale che sta dietro questa considerazione è sempre quello. È lo stesso che Marx sottolineava, sostenendo che al capitalismo occorre sempre una massa di lavoratori potenziali di riserva che consenta di mantenere il costo del lavoro a un livello sempre molto basso, il più basso possibile. È possibile uscire da questa spirale perversa?
Non è facile, ma è possibile. Occorre incominciare a guardare oltre il ristretto orizzonte economicistico, alimentando nuove e sempre più crescenti solidarietà nel mondo del lavoro, guardando all’impresa come a un microcosmo di convergenti interessi e di comuni obiettivi. Occorre tornare ad attribuire dignità retributiva a tutti i lavori, affinché non ci siano forme di sfruttamento da riempire con mano d’opera a basso costo.
Occorre che i flussi migratori siano disciplinati ed organizzati in base al criterio della necessità effettiva di manodopera qualificata e di un’offerta di lavoro dignitoso e regolarmente retribuito, magari organizzando e finanziando appositi centri di formazione e avviamento al lavoro nei paesi di provenienza. Ma, alla base di tutto, occorre elaborare un modello di sviluppo che sappia intercettare i limiti oramai evidenti del neoliberismo capitalista per proiettarsi verso un nuovo modello economico che sia competitivo proprio perché fortemente solidaristico e partecipato da tutti gli attori del processo produttivo.
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