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02 Novembre 2024 - 11:16
Donald Trump e Kamala Harris
Due ballottaggi, nel primo e nell’ultimo degli Stati del pianeta: negli Usa martedì e in Moldavia domani. A legarli un filo, la Russia, da stringere per riavvicinarla o da allentare lasciandola scivolare verso la Cina. Sull’America sono puntati gli occhi degli otto miliardi e rotti di umani che sovrappopolano la Terra. La scelta, infatti, peserà direttamente o indirettamente sulla vita di tutti. La vittoria di Kamala Harris prospetta la continuità.
Tanto per fare alcuni esempi: della guerra in Ucraina, di consolidamento e ulteriore allargamento di componenti e compiti dell’Alleanza Atlantica, di nuovi negoziati con l’Iran sul nucleare tra i sospetti di arabi e israeliani, di minore intolleranza verso l’afflusso d’immigrati clandestini, di una maggiore e progressiva tassazione che alimenti la spesa sociale, di più attenta difesa dell’ambiente, di fermezza sui princìpi dello Stato laico che Kamala ha sottolineato riaffermando il contestato diritto all’aborto, saltando l’incontro tradizionale con i rappresentanti della comunità cattolica e risparmiandosi meeting e sermoni elettorali dei rappresentanti di altre confessioni religiose.
E altro ancora, ma l’elenco è lungo e ormai abusato su media e social. I vicepresidenti hanno avuto, non sempre ma quasi, poco o punto da dire. Lei non ha fatto eccezione. Una nullità politica – rivelatasi in una fallimentare missione centramericana volta alla regolamentazione dell’immigrazione – e quasi tenuta a bada da Biden per timore che combinasse guai. Catapultata poi verso la Casa Bianca sorvolando le primarie vinte dal presidente uscente, un tantino pure di senno. Ma il futuro è imperscrutabile, vanno messe in conto le sorprese positive. Non sarebbe la prima volta. La vittoria di Donald Trump prospetta, invece, un capovolgimento strategico ma i timori che suscita sono attenuati dal presunto déjà-vu di un ‘comandante in capo’ già sperimentato, nel bene e nel male.
Tra gli aspetti negativi, l’essere radicalmente ‘divisivo’ rappresenta un peccato capitale per il capo di una popolazione che tiene alla bandiera perché multietnica e multinazionale. E grave è stato lo svalutare, durante il suo mandato, la questione ambientale: gli Usa sono divenuti il massimo produttore di energia fossile e si sono guardati dal sollevare il problema della devastazione e dell’inquinamento di terre e di mari in Asia, Africa e Sud America. Divisivo, imprevedibile e Gian Burrasca: poteva pur esserci nel conto, ma da lasciar basiti durante la pagliacciata dell’assalto al Congresso. Nelle comiche finali di questa campagna presidenziale s’è messo a distribuire patatine fritte, per riaffermare ch’è pure un uomo semplice e bonario, e a guidare un camion dell’immondizia con un sorriso beffardo per replicare a Biden che aveva definito “spazzatura” i suoi sostenitori. Questo, mentre Harris solcava palcoscenici elettorali sganasciando risate. Divisivo.
E tuttavia Trump è stato un presidente che vanta una serie di successi notevoli sul piano interno e ancor più su quello internazionale. 1) Ha dato slancio all’economia favorendo una detassazione che non portava inflazione ma investimenti, imprese, occupazione dalle cui rimesse lo Stato centrale e alcuni Stati della Federazione – vedi Texas e Florida ricavano più di quanto avevano perso. 2) Non ha scatenato guerre durante il suo mandato: per un presidente Usa quasi un primato se pensiamo a coloro, tra i predecessori, che han dovuto favorire o inventarsi occasioni di ‘casus belli’ per spingere il popolo più isolazionista del mondo a impegnarsi in un conflitto. 3) Ha riaperto con il Cremlino il dialogo che, da Bill Clinton a Barak Obama compreso, era progressivamente degenerato, con la Nato penetrata all’interno dell’ex Urss che minacciava di spingersi fin quasi a un tiro di schioppo da Mosca. 4) Ha aperto gli occhi dell’Occidente su espansionismo ed egemonismo della Cina, inaugurando la stagione del nuovo “containment” economico e strategico. 5) Ha preso le prime misure concrete per frenare l’invasione di milioni d’immigrati illegali dalle frontiere meridionali. 6) Ha guidato israeliani e arabi verso gli Accordi di Abramo: avrebbe meritato un Premio Nobel perché hanno dischiuso dinanzi al Medio Oriente le porte della pace futura, tanto da spingere Hamas e i suoi padrini alla strage del 7 ottobre per sabotarli. E ancora…
Ma ora gli scenari sono mutati in peggio. E chissà se pure il suo carattere e la sua politica. Vedremo. Il ballottaggio presidenziale in Moldavia conferma che questa Unione Europea resta indispensabile ma piace sempre meno – così com’è – a chi vi ci convive. E comincia ad attrarre meno di prima chi vi batte all’uscio. A dirla tutta, incute prudenza. Lo hanno testimoniato, peraltro, tutte le consultazioni elettorali degli ultimi e penultimi tempi. Pochi giorni fa sia le elezioni parlamentari in Georgia, sia il primo turno delle presidenziali in Moldavia, abbinate al referendum sull’inserimento nella costituzione l’obiettivo di far parte dell’Ue. Consultazioni presentate come uno scontro tra filoeuropeisti e filorussi. In realtà, l’Ue come meta è comune alle forze che si contendono il potere. La differenza sta nell’aspirare a un processo che avvenga nella consapevolezza che la Russia sia da considerare nemica oppure che, facendo essa parte del Vecchio Continente, occorra contemporaneamente riallacciare i legami spezzati segnatamente con il conflitto in Ucraina e non si strappino quelli ancora esistenti.
In Georgia il riconteggio dei voti ha confermato – nel silenzio imbarazzato di Bruxelles e dei media occidentali – l’ampia vittoria di “Sogno georgiano” di Bidzina Ivanishvili, convinto europeista ma pure della necessità che Tblisi dialoghi con Mosca. In Moldavia si affrontano Aleksandr Stoianoglu, definito spregiativamente “russofono”, e Maria Sandu, europeista anti-Mosca, già premier e capo di Stato uscente, costretta al ballottaggio perché al primo turno ha ottenuto il 42% contro il 60% preventivato. A decidere il sì nel referendum sull’Ue – appena una manciata di voti in più – le schede provenienti dai seggi allestiti all’estero. Almeno 600mila gli espatriati, due terzi nell’Unione e il resto in Russia e dintorni.
Una cinquantina i seggi allestiti nella sola Italia, un paio dalle parti di Putin. Stoianogluetichettato filorusso sol perché, con l’occhio alle pagine di storia, ritiene sia utile che intercorrano buoni rapporti con la Russia. E come dargli torto, anche limitandosi a ricordare che la capitale di quella regione rumena accaparrata da Mosca, mutilata della Bessarabia storica assegnata all’Ucraina assieme allo sbocco a mare, ed eletta repubblica dell’Urss, si chiamava Khiscinev fino al terremoto sovietico e all’indipendenza dell’estate-autunno del 1991, quand’è tornata a chiamarsi Chisinau. E che la Transnistria, repubblica autonoma nei confini statali, passò subito ad una auto-indipendenza protesa verso la Federazione russa: da allora ne alberga truppe e cannoni.
Insomma, chiunque vinca, in Moldavia il passato non è mai sepolto definitivamente. Come nel Caucaso e lungo le coste del Mar Nero che ‘sfocia’ nel Mediterrano, con rotte che poi puntano verso Suez e le Colonne d’Ercole e, doppiata Gibilterra, s’aprono sull’Atlantico. Potrebbe mai rinunciarvi il Cremlino? Guardi alla Moldavia e pensi subito all’Ucraina e alla Georgia e all’Armenia. Ai primi regni cristiani, nazionalisti e ortodossi. Al ruolo della Russia, alle reciproche diffidenze, alle alleanze e ai tradimenti, ultimo il Nagorno Karabakh.
La Russia di Vladimir Putin si è ricongiunta all’ortodossia senza però rinnegare lo status planetario ereditato da Stalin, la cui casa natale è a Gori, una settantina di chilometri da Tblisi. Il Cremlino ricorda l’antica lezione del ‘divide et impera’, con repubbliche autonome sparse nei confini delle repubbliche sovietiche. Anche in Georgia, come in Moldavia, popolazioni e territori indipendenti. Mosca se l’è riprese, nel 2008, occupando Ossezia del Sud e Abkhazia, quando Washintgon mise il naso anche nel Caucaso. Periodicamente resuscita, il passato, mai remoto e sempre prossimo.
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