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28 Novembre 2024 - 07:56
Un filo ha legato le riunioni del G7 dei ministri degli affari esteri tra Anagni e Fiuggi e del governo israeliano a Gerusalemme: la tregua, come trofeo del presidente uscente statunitense Joe Biden, tra Israele e la teocrazia di Teheran in Libano subito, a Gaza a seguire. In Libano, dove l’esercito con la stella di David ha raggiunto il fiume Litani, da cui s’allontanò un quarto di secolo fa, ristabilendo la fascia di sicurezza lungo la frontiera e le condizioni per il rientro dei 60mila sfollati. Era compito delle forze armate libanesi e dell’Unifil sorvegliare quel confine che, invece, divenne presto linea del fronte per Hezbollah.
“Un errore storico non chiudere la partita”, il monito lanciato a Benjamin Netanyahu da chi, nell’esecutivo, non condivide la decisione. Non ha forse torto, le tregue sono pause nella guerra. La pace, che definisce Stati e confini, nasce da vittorie e sconfitte. La tregua di un paio di mesi serve, tuttavia, non solo ai suoi nemici ma anche ad Israele per riprendere fiato da una battaglia aspra su un duplice teatro. Un paio di mesi per levarsi pure dai piedi Biden e verificare se Donald Trump abbia davvero pronto il piano - o la bacchetta magica - per riprendere il progetto che aveva portato agli Accordi di Abramo tra arabi ed israeliani. E, chissà, per porre le basi di un cambio democratico di regime in Iran nella prospettiva sia del ritiro di Alì Khamenei, per cause naturali data l’età, sia dell’insofferenza vieppiù diffusa verso un regime oscurantista che soffoca dal 1979 un Paese la cui popolazione indo-europea vanta storia e civiltà millenarie.
Nelle città dell’ira laica di Sciarra Colonna e delle acque ‘riparatrici’, il G7 ha discusso su come prepararsi ad affiancare il negoziato che Trump prospetta per risolvere il massacro quotidiano in Ucraina e scongiurare la minaccia, decisamente sottovalutata finora, di una apocalittica deriva nucleare. Le posizioni restano sostanzialmente due: 1) il regime di Volodymyr Zelensky si arrenda alla realtà, accetti una tregua di lunga durata che fotografi la situazione attuale sul campo di battaglia, rinunci ad entrare nella Nato ma ottenga garanzie di sicurezza; 2) il regime di Kiev prosegua i combattimenti contando su maggiori aiuti da parte di Usa e Ue (segnatamente di Gran Bretagna e Francia) e recuperi parte dei territori perduti in modo da affrontare un negoziato con Mosca da posizioni migliori delle attuali.
I nuovi missili già in offerta a Kiev, istruttori e assistenti militari, la prossima base Nato in Polonia, l’iniziale viatico. Facile immaginare che si percorra una via di mezzo. Difficile prevedere se il regime salverà la faccia e la pelle, con la popolazione ucraina allo stremo, impoverita e dissanguata.
Si sono sprecate ad Anagni e a Fiuggi assicurazioni e telegeniche strette di mano col ministro degli Esteri di Kiev. Intanto, in America montavano le polemiche sulle decisioni di Biden di fornire ulteriori armi e denaro a Kiev. Trump stesso ha reagito con durezza: “Dall’Ucraina sono stati lanciati missili balistici Atacms contro la Russia. Joe Biden e la Nato stanno spingendo gli Stati Uniti verso la terza guerra mondiale. Questo deve finire! Zelensky e Putin discuteranno presto con me per risolvere (i motivi) di questo conflitto”. Molte altre voci si sono levate. Jeffrey Sachs ha ribadito in un’intervista tv quanto aveva affermato, da remoto, la scorsa settimana in un convegno all’università Vanvitelli: “Una decisione irresponsabile” quella del presidente Biden di “fornire missili che colpiscono in profondità la Russia” e proprio mentre si presumeva che avrebbe operato un’aperture alla trattativa. Una “pericolosissima stupidaggine”, come se i russi “scagliassero un missile contro gli Stati Uniti da un sottomarino nei pressi della costa ma appena fuori delle acque territoriali americane”.
Una decisione massimamente rischiosa - che non si sa se sua o suggeritagli “e da chi, se dal Pentagono, se dalla Cia” - che contrasta con i propositi della sua presidenza, che non altera il corso del conflitto e che viene presa alla vigilia di una nuova presidenza”. E forti polemiche ha sollevato il programmato invio di mine anti-uomo - bandite non dagli Usa ma da quasi tutti i Paesi del mondo - per frenare l’avanzata delle forze russe: di là dalle generiche assicurazioni d’essere “a tempo”, promettono eserciti di mutilati anche tra i civili. Ma c’è stato pure chi - ‘Issues Insights’ - tra il serio e il faceto ha sottolineato come “un presidente mentalmente ritardato ha compiuto in questi giorni 82 anni (…) ma una parte del suo carattere non è offuscata dal passare del tempo: il suo leggendario disprezzo e la sua gioiosa volontà di colpire i suoi nemici politici. Starà forse per scatenare una terza guerra mondiale per regolare un conto elettorale con il neo-eletto presidente Donald Trump?”.
Intanto, i governi di Svezia e Finlandia stanno distribuendo milioni di opuscoli alla popolazione con consigli in caso di conflitto. Intanto, il presidente della Serbia, Aleksandar Vucic, ha reagito con durezza alla BBC che l’intervistava rimproverandogli scarsa solidarietà verso l’Ucraina: “Lei mi parla dell’integrità territoriale dell’Ucraina”, attaccata dalla Russia che si riprende le sue storiche terre, “ma perché non mi parla dell’integrità territoriale della Serbia?”. Bombardata dalla Nato con proiettili all’uranio impoverito, con la Corte penale internazionale distratta - e di cui Washington s’impipa - e privata della sua storica culla, il Kossovo. Intanto, in Romania un’altra vittoria della destra sovranista fautrice di buoni rapporti con Mosca: al primo turno delle elezioni presidenziali ha prevalso Galin Georgescu, che va al ballottaggio dell’8 dicembre con Elena Lasconi, destra moderata. Battuto il premier (ma fino all’imminente voto per il parlamento, il primo dicembre) Marcel Ciolacu, socialista, che gli istituti demoscopici davano anche lì per favorito. Portano sfiga ormai.
Una carneficina per nulla, in Ucraina, che il burattino in t-shirt militare e i suoi accoliti hanno però prudentemente evitato, come i burattinai a Washington e in coda a Bruxelles: quante le visite al fronte, dove si combatte? A Kiev le parole di pace di Volodymyr Zelensky sbocciano come un crisantemo su una palude fetida, dove sangue e terra infetta si mischiano e corpi ed erbe marciscono assieme. Sbava, Zelensky, di un negoziato che nel corso del prossimo anno porrebbe termine al massacro quotidiano e chiede armi non sa più nemmeno lui per che cosa, se per la vittoriosa riconquista di Crimea e Donbass grazie ai nuovi missili o se per rallentare la ritirata del suo esercito grazie alle mine disseminate sull’avanzata dei russi. Su una cosa pare sincero: ammettere, finalmente, che la guerra nutre delusione e rabbia tra la gente che non è riuscita a fuggire dall’inferno, né protestare in piazza né scegliere altri governanti meno indecenti. La falce che miete viventi, il veleno che disgrega l’ambiente sconvolgono ormai gli occhi, il cuore e la mente. La repressione di ogni pur minimo dissenso stenta ormai a contenerlo. Fuochi ed esplosioni e rabbia in Ucraina. Gli applausi residui da Anagni e Fiuggi hanno eco attutite, non ispirano coraggio ma sarcasmo, gonfiano l’ira della popolazione.
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