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L'opinione
20 Gennaio 2025 - 08:46
Cambiare tutto per non cambiare niente. O quasi. Va accolta decisamente così la riforma approvata alla Camera in prima lettura con la quale, se mai vi sarà il varo finale in tutti i successivi passaggi, i magistrati giudicanti avranno carriere distinte e separate da quelle dei requirenti, vale a dire i pubblici ministeri.
Una “rivoluzione copernicana”, come la si cerca di far passare? Tutt’altro. A ben guardare infatti, resterà il principio che ha determinato in quasi ottant’anni, da quando è stato inserito in Costituzione, tutti i guasti della magistratura italiana che l’hanno resa un unicum ben poco invidiabile rispetto a quelle delle altre nazioni civili d’Europa e del mondo.
Difatti anche nei due nuovi Csm previsti dalla riforma, uno per i requirenti ed uno per i giudicanti, a prevalere sarà sempre la schiacciante maggioranza di magistrati in carriera – due terzi – sui cosiddetti laici nominati dal Parlamento: un solo terzo. Per giunta ai primi si aggiungono altre due figure apicali, sempre prelevate dai ranghi della magistratura.
Ora, qualcuno sa dirmi se in qualsiasi consesso, dalla banale assemblea condominiale a quella di un’azienda o di una multinazionale, serva a qualcosa quello sparuto terzo di figure prescelte dal Parlamento, rispetto alla sovrabbondante maggioranza dei magistrati di carriera chiamati a giudicare sulla loro stessa categoria?
Ovvia la risposta: i laici hanno una funzione meramente figurativa, al massimo consultiva, ma al momento delle votazioni non contano nulla. Si aggiunga che anche nell’Alta Corte prevista dalla medesima riforma, la maggioranza dei togati resterà un cardine intoccabile.
Insomma, riforma o non riforma, i magistrati italiani continueranno a giudicarsi da se stessi, come hanno sempre fatto dal novembre 1947 quando fu approvato, con un autentico “colpo di mano”, l’articolo 104 della Costituzione. Quella notte il testo varato dalla Commissione Giustizia della Costituente prevedeva, come in tutti gli altri Paesi democratici, il 50 per cento di togati e il 50 di laici all’interno del Consiglio Superiore, l’organo che non solo è chiamato a giudicare sugli “errori” e gli abusi dei magistrati ma anche, di riflesso, sulla tenuta complessiva del Paese.
E invece quella notte in pochi minuti le maggioranze esistenti furono sovvertite e si passò alla norma attuale per cui nel CSM il 75% dei componenti sono magistrati e solo il 25% i laici. Questa assoluta anomalia resterà anche con la riforma e l’Italia continuerà ad essere l’unica “Repubblica Penale” del mondo, in cui il controllo incrociato fra i poteri dello Stato (in questo caso Parlamento e Magistratura) è stato sovvertito ab origine, esautorando totalmente gli unici luoghi di effettiva rappresentanza democratica, cioè Camera e Senato, dalla possibilità di esercitare quel sano controllo incrociato che, negli altri Paesi europei, è il sale vero della democrazia.
Una riformicchia a metà insomma, questa separazione delle carriere, contro cui pure la categoria continua a stracciarsi le vesti, per la perdita eventuale di quello che è stato uno dei suoi privilegi, ma ben consapevole che il potere, quello vero – dato dai due terzi di magistrati – non lo toccherà mai nessuno.
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