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l'analisi

Il campo largo non c’è: c’è l’invasione di campo

Al punto in cui siamo, senza una leale collaborazione istituzionale un Paese non si governa

Almasri, Bongiorno a Palazzo Chigi. Fonti Quirinale: Meloni da Mattarella per comunicare indagine

Giorgia Meloni e Sergio Mattarella

Agl’inizi degli anni Novanta, il nostro Paese fu la ribalta bollente di un’operazione giudiziaria senza precedenti che sconvolse il mondo politico, la società tutta. Partita con intenti moralizzatori, a mano a mano che procedeva, si dimostrò non sempre tale per troppe, sfacciate e generose indulgenze, da parte di taluni Pm, definiti d’assalto per le loro idee molto avanzate, però in una sola direzione, da alimentare sospetti e polemiche. Un clima brutto, molto difficile, che ha generato negli anni profonde crepe, tuttora attive tra giustizialisti e garantisti. Allora, molte inchieste, avendo risparmiato Pci e Pds, unica forza politica del sistema di potere della Prima Repubblica sopravvissuta a quel “repulisti”, perché meno coinvolta come vogliono taluni colpita con minore inflessibilità come sostengono altri finirono per avallare sospetti e polemiche.

Da un esame retrospettivo, quella, obiettivamente definita la “rivoluzione dei giudici”, ebbe l’effetto di stravolgere gli equilibri politici, condannando alcuni partiti alla scomparsa e altri a un inesorabile declino. Tutto ciò fu una lotta faziosa di una parte dell’ordinamento giudiziario contro il potere legislativo. Sostenuta dalla sinistra, beneficiaria di questo clima e avversata successivamente dalla offensiva permanente del centrodestra di Berlusconi, la cui discesa in campo in politica gli costò centinaia di processi. Che ciclicamente si ripresentava nei momenti delicati della vita politica e più di qualche toga ha provveduto a mantenere e mantiene viva. Come dimostra in questi giorni l’invio da parte della Procura di Roma di tre “pre-avvisi” di garanzia, rispettivamente per la premier Meloni, il ministro dell’Interno Piantedosi e il ministro della Giustizia Nordio, sott’accusa per alcuni dettagli formali nella scarcerazione e espulsione del generale libico Almasri.

Al centro di un intrigo internazionale, in realtà tutto europeo, perché lo si è lasciato prima indisturbato nel suo Grand Tour in Europa e poi fatto arrestare appena messo piede in Italia. Non certo per fare un piacere al nostro Paese e lo si è visto. Ora è vero che la politica è diventata una distillazione di odi ma, in questa circostanza, molto del suo ve lo ha messo anche un procuratore capo di Roma. Che, per mestiere, deve contestare chi “non può non sapere” ma, nella fattispecie, è lui “a non poter non sapere” che il caso del generale si sarebbe risolto, attivando il segreto di Stato. Al punto in cui siamo giunti, senza una leale collaborazione istituzionale, un Paese non si governa. Oggi ci troviamo addirittura al paradosso politico di un “campo largo” inesistente, nonostante tanto declamato dalla opposizione e di una “invasione di campo” da parte di alcuni magistrati, impegnati a complicare il cammino del governo. Scene da teatro futurista a sorpresa, in cui si ribaltano i ruoli: la maschera fa l’attore, il suggeritore il dimenticatore e, tornando all’attualità, la magistratura fa l’opposizione. Una situazione del genere non è più sostenibile.

Occhi quindi puntati sul Colle, ricordando ciò che disse Ruini, il presidente della Costituente: “Nel nostro progetto, il Presidente della Repubblica non è l’evanescente personaggio, il motivo di pura decorazione, il maestro di cerimonia che si volle far credere in altre costituzioni. Egli rappresenta e impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato, al di sopra delle fuggevoli maggioranze. È il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il capo spirituale più ancora che temporale della Repubblica. Non governa ma le attribuzioni che gli sono conferite gli danno infinite occasioni di esercitare la missione di equilibrio e di coordinamento che gli è proprio”. È quanto servirebbe per svelenire un clima avvelenato da una opposizione, che non si è ancora decisa a farla, ma spera sempre di ribaltare le cose con le scorciatoie. La Schlein, in questa circostanza, di fronte a un intrigo internazionale, ordito per mettere in cattiva luce il nostro Paese, ancora una volta ha sbagliato a non scegliere la sua difesa per inseguire il populismo più disfattista del “Conte Grllletto”. Ecco perché il suo nome non figura più nel “totofederatore”.

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