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La rivoluzione di Trump e lo Stato dei palestinesi

L’obiettivo della pace in Medio Oriente passa certamente per uno Stato palestinese

Svolta Trump, tregua ma niente pace

Donald Trump

Qual è l’alternativa al progetto di pace di Donald Trump? L’interrogativo è apparso soltanto su due giornali, uno statunitense e l’altro israeliano. Di là dalla retorica su convivenza e globalismo, la verità è che nel mondo ci si spara contro per la terra, la “propria” terra, della “propria” nazione, del ‘proprio’ Stato. E l’obiettivo della pace in Medio Oriente passa certamente per uno Stato palestinese. Ma come, dove e quando? Occorrerebbe aggiungere anche per uno Stato curdo, a maggior ragione perché almeno un ridotto Stato palestinese c’è, s’è determinato nel corso degli ultimi decenni: è il regno di Giordania, abitato ormai da una maggioranza di palestinesi, con una regina palestinese, la bellissima Rania.

Vale la pena ricordare che il re ashemita Abdallah deve il regno al padre, re Hussein, il quale – per semplificare lo difese con le armi nel “settembre nero” del 1971 dalle mire di Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, nata sette anni prima. Uno Stato palestinese è una necessità. Ed un’invocazione universale: di presidenti di repubblica, sovrani, capi di chiese, di governo, di forze politiche… Il Medio Oriente è vastissimo ma i Paesi confinanti con Israele non hanno mai avuto intenzione di cedere ai palestinesi fosse pure un centimetro, per nobilissimi motivi e, gratta-gratta, per taciuta ma radicata diffidenza. E pertanto l’embrione di uno Stato palestinese resta costituito da Cisgiordania e Gaza. Peraltro, Gaza che il Cairo preferì non riprendersi quando gli israeliani riconsegnarono all’Egitto il Sinai. Ne faceva parte assieme alle altre conquiste delle forze di Tel Aviv (Cisgiordania, Gerusalemme est, Golan) durante la controffensiva nella guerra del 1967.

La restituzione del Sinai fu consacrata nel 1979 con il trattato di pace israelo-egiziano, che seguì gli Accordi di Camp David dell’autunno precedente firmati dal premier israeliano Menachem Begin e il presidente egiziano Anwar al Sadat. Entrambi meritarono davvero il premio Nobel. Ma Sadat pagò il suo coraggio con la vita: due anni dopo venne assassinato da affiliati alla Fratellanza musulmana. Quel 1979 fu un anno di svolte strategiche. L’Iran indo-europeo dalla storia millenaria e occidentalizzante nelle aree urbane, finiva nelle mani del fondamentalismo islamico versione sciita: tra gli obiettivi di Ruḥollāh Khomeini la distruzione di Israele. Avrebbe incendiato il Medio Oriente, alimentato ed esaltato l’estremismo sunnita dei regimi arabi rivali, contagiato quello palestinese.

E contro l’Unione Sovietica che aveva invaso l’Afghanistan pluritribale si coagulò il sostegno – armi e denaro di Occidente e regimi conservatori arabi a favore della resistenza di movimenti fondamentalisti e nazionalisti. A stimolare vocazioni e impegno le confinanti ‘madrase’pakistane. Fu l’inseminazione del regime talebano, di Al Qaeda, dell’Isis, e via elencando, fino ad Hamas. L’obiettivo iraniano della distruzione di Israele rafforzò la reazione delle fazioni ebree che mai avevano creduto alla coesistenza pacifica di due Stati confinanti ma troppo diversi, socialmente ed economicamente. Uno Stato palestinese considerato la massima minaccia. Significativo e tragico per le sue conseguenze fu l’assassinio nel 1995, da parte di uno stesso ebreo, del premier Yitzhak Rabin: premio Nobel per la pace assieme a Yasser Arafat avendo sottoscritto gli Accordi di Oslo, due anni prima, sull’autogoverno palestinese in Cisgiordania e Gaza.

Premessa di uno Stato palestinese. I confini di uno Stato sono conseguenza di vittorie e sconfitte militari. Le linee di separazione scorrono lungo le spine dorsali dei monti, il corso dei fiumi, le coste marine. Le pianure spingono a nuove conquiste, talvolta a ritirate, in cerca di limiti in frontiere naturali. Salvo gli imperi marittimi, gli Stati terrestri esigono unità territoriale, i corpi separati invocano indipendenza: il Pakistan disegnato dai britannici perse l’attuale Bangladesh. Così la Cisgiordania perse Gaza. Infatti, i palestinesi che vorrebbero aggiungere anche l’attuale Israele, o parte di esso, alla loro patria, non compiono attentati e stragi solo contro gli “occupanti ebrei” ma anche nell’Occidente filo-israeliano, soprattutto in Europa, e sempre contro gente inerme. Né si limitano a questo, perché si scannano con molto impegno anche fra loro. Hamas nel 2007 strappò Gaza a colpi di mitra dalle mani dell’Autorità nazionale palestinese.

L’Anp controlla da allora la sola Cisgiordania (vieppiù in condominio con gli israeliani degli insediamenti), non tiene elezioni democratiche e il suo inamovibile presidente, Abu Mazen, eletto nel 2005, non ne prevede a dispetto dei suoi anni. Ne compie 90 il prossimo 26 marzo. A Gaza non si conosce un solo avversario politico di Hamas ancora in vita. Gaza non tornerà mai più un florido aranceto curato da una cinquantina di migliaia di palestinesi. Era divenuto un ammasso di costruzioni adesso di macerie abitato da un paio di milioni di persone, molte si spostano ancora su carrette affollate trainate da macilenti somari, molte altre sopravvivono di carità internazionale, o meglio: di quanto scampa alla corruzione che dilaga sfacciatamente e all’acquisto di armi e alla paga delle milizie e alla costruzione di tunnel sotterranei. La democrazia sopravvive solo in una briciola di territorio mediorientale: Israele.

A volte, però, utile e comodo paravento. Impossibile prevedere se il piano di Trump funzionerà. Appare fin troppo ambizioso: allontanamento volontario della popolazione palestinese, un decennio e più di ricostruzione e una “Riviera” splendente, nuova Costa Azzurra mediorientale. Ma soprattutto manca il dove-come-quando dello Stato palestinese. Certo, le rivoluzioni a volte hanno vita lunga e l’obiettivo principale non si materializza subito. Svanisse invece in un miraggio, auguriamoci serva almeno a smuovere l’acqua di questo mefitico Mar Morto ch’è il Medio Oriente.

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