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La riflessione
24 Febbraio 2025 - 08:57
Il 20 febbraio è una data emblematica per noi italiani - per il sottoscritto è solo un giorno da ricordare nel novero privato e incancellabile degli affetti. Ricorreva, infatti, il “giorno” che potremmo definire “della perdita dell'innocenza”, quello in cui cinque anni esatti prima un giovane uomo italiano (poi salvatosi) era risultato positivo al tampone per un nuovo e terrificante agente infettivo, un coronavirus dal nome quasi impronunciabile, il Sars-Cov-2.
Il Belpaese si era risvegliato, senza neanche il tempo di sapere perché, come di fronte a una violenta scossa di terremoto, da un ottuso e colpevole sonno in cui si era da sempre cullato, quello di avere uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, e si era ritrovato (proprio come un terremotato) in braghe di tela, impaurito, spaventato, indifeso e all'addiaccio.
Da quel fatidico giorno sono passati 5 anni e quella data, già indimenticabile per addetti ai lavori e gente comune di ogni ceto ed età, è diventata una ricorrenza commemorativa per le centinaia di sanitari morti, meno per i quasi 200mila cittadini di questo Paese che a causa di quella malattia non hanno più visto la luce del giorno.
Provate a tornare indietro con la memoria e a ricordare dove eravate quando è stata diffusa la notizia che all'ospedale di Codogno in provincia di Lodi era arrivato il risultato del tampone effettuato su un giovane paziente, Mattia Maestri, il quale versava in condizioni precarie di salute. Confessate a voi stessi se avete temuto per la vostra vita e quella dei vostri cari già in quelle incerte ore o se ci avete messo qualche giorno a capire, a tremare di paura e di angoscia, a comprendere che tra voi e questa nuova peste bubbonica non c'era niente, se non il silenzio, l'isolamento e la protezione.
Oggi che la politica si è impossessata, anche a sproposito, delle ragioni e dei torti che hanno guidato le scelte effettuate da chi aveva il compito di tutelare la salute comune, riavvolgiamo il nastro degli eventi, temo tuttavia senza analizzarlo né comprenderlo come invece dovrebbe.
Se a Roma sono stati, direi anche doverosamente, commemorati i morti che, il complesso ed eterogeneo mondo delle professioni sanitarie, ha contato in quel catastrofico frangente, altrove - non lontano dalle Corsie Sistine del meraviglioso complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia - chi oggi deve compiere scelte lungimiranti e pacificatrici (qualunque sia la sua appartenenza politica) preferisce optare per dichiarazioni roboanti, come quella del "mai più lockdown!", invece di ragionare su cosa si è veramente fatto in questi cinque anni per evitare nuove impreparazioni gestionali e altri dolorosi confinamenti sociali, meglio se distribuiti un po' a casaccio, che restano tuttavia comunque una scelta oculata e condivisibile se è la scienza e non la politica a suggerirli e ad avallarli.
L'epidemiologa e docente universitaria milanese Sara Gandini ha pubblicato qualche giorno fa su portale Blog, insieme al saggista Paolo Bartolini, un pezzo dal titolo inequivocabile: "Che accadrebbe con un’altra pandemia? Saremmo punto e a capo, e con una sanità in rovina". Al di là di alcuni passaggi neanche tanto vagamente "ideologici" del suo articolo, mi sembra utile riportare, invece, ciò che le evidenze scientifiche e sociologiche supportano e che la professoressa esprime del tutto compiutamente. In particolare quando parla di due aspetti fondamentali.
"La sensazione" - dice la Gandini - "è che non si sia imparato nulla dall'emergenza sanitaria esplosa nel 2020 e che il concetto di sindemia (indispensabile per riconoscere la variabilità degli effetti di un agente patogeno sugli esseri umani a partire dalle condizioni mediche e socioeconomiche che li riguardano) non abbia ottenuto la giusta attenzione". Per poi, molto più profeticamente, aggiungere - "Stante il livello del dibattito, è facile immaginare che dinnanzi a qualche epidemia di seria entità, ci troveremmo punto e a capo, anzi con una frammentazione sociale aggravata dalle polarizzazioni nutrite dal mainstream. La sfiducia verso le istituzioni è massima.
I politici sono percepiti come estensioni dei centri finanziari e delle multinazionali. Il senso di impotenza verso una politica che sappia incidere cresce, portando le persone a ripiegarsi su posizioni individualiste e qualunquiste, oppure a scontrarsi in contrapposizioni sterili che non prevedono ascolto di posizioni differenti. Lo strumento dei vaccini – che dovrebbe essere impiegato senza obblighi e costrizioni, in sinergia con cure domiciliari, medicina personalizzata sui territori e investimenti nella ricerca – è idolatrato o demonizzato, alimentando un (non) pensiero vaccinocentrico che oscura molti altri fattori di vitale importanza". Come non darle ragione!
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