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l'analisi

Cassazione e politica: chi decide davvero il diritto?

La Suprema Corte è intervenuta in sede civile sulla vicenda Salvini

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S’è detta, a mio avviso giustamente, frustrata la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dopo una nuova sentenza, questa volta delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – la massima espressione della giurisdizione dello Stato, contestabile solo in casi eccezionali dinanzi a organismi sovranazionali, per di più con effetti alquanto limitati. La Corte, che si chiama non a caso Suprema, è intervenuta assai celermente sull’impugnazione di una sentenza della Corte d’appello di Roma che, meno d’un anno fa, aveva ritenuto insussistente e comunque indimostrata la colpa della Pubblica Amministrazione nell’organizzazione delle modalità di sbarco di emigranti eritrei dalla motonave Diciotto della Marina Militare, che li aveva tratti in salvo ma li anche aveva trattenuti a bordo in attesa di stabilire la loro destinazione.

Insomma, la Cassazione è intervenuta in sede civile sulla vicenda Salvini. Secondo i giudici di appello, quella decisione del ministro, per come si erano svolti i fatti e tenuto conto della non assoluta chiarezza della normativa di riferimento, non avrebbe potuto costituire la base per avanzare una domanda di risarcimento del danno nei confronti della pubblica amministrazione, danno che peraltro non sarebbe stato nemmeno dimostrato. Non così la Corte di Cassazione: la quale ha ritenuto che il soccorso in mare sia un obbligo di valore assoluto e che esso rechi con sé la necessità – di pari valore – di reperire un recapito sicuro per il migrante clandestino «nel più breve tempo ragionevolmente possibile» (preferibilmente non in Albania). Sulla scorta di questa base, la Suprema ha ritenuto, contro la decisione della Corte di merito e su parere contrario della Procura generale della stessa Cassazione, che il processo debba ripetersi per verificare se il trattenimento a bordo della Diciotti possa considerarsi o meno «un’arbitraria violazione della libertà personale».

Ha sorpreso la presidente del Consiglio un tal modo d’argomentare, non sorprende però un vecchio avvocato, come chi sta scrivendo. Certo, c’è da dire che la Corte di Cassazione dovrebbe occuparsi per legge solo della violazione delle norme di diritto, non dovrebbe implicarsi nelle valutazioni di fatto. Ed in questo caso, per dire quello che ha detto, la Suprema ha sostanzialmente ritenuto che le valutazioni della Corte d’Appello circa lo svolgimento dei fatti e la mancata prova dei danni di conseguenza subiti dai migranti fossero errate: perché se questa valutazione non avesse fatto da sfondo, nemmeno si sarebbe potuta affermare la violazione delle norme internazionali sul soccorso in mare (soccorso peraltro regolarmente attuato) con l’attergato dell’individuazione celere del posto sicuro: lo stesso concetto di ‘più breve tempo possibile’ è all’evidenza una valutazione di fatto, non di diritto.

Ma l’illusorietà della divisione tra ‘fatto’ e ‘diritto’ nei giudizi di Cassazione è stata messa all’evidenza appena poco meno d’un secolo fa da un libro capitale di Guido Calogero, La logica del giudice ed il suo sindacato in Cassazione, che ha mostrato come essa sia poco più che un artificio logico insostenibile. Insostenibile, sì, ma estremamente funzionale nel porre le decisioni della Corte di Cassazione al riparo da qualsivoglia critica, perché esse facilmente s’obnubilano dietro l’affermazione mistificante che si limitano ad applicare la legge, senza conoscere dei fatti. E non è un caso, se il neosegretario dell’Anm, drottor Rocco Maruotti, nel replicare alle critiche della premier e di molti politici, abbia ripetutamente utilizzato l’usurato ed ineffabile argomento che i giudici si limitano ad applicare le leggi, né più né meno.

Ineffabile ed assai comodo luogo retorico, dato che toglie al magistrato qualsiasi responsabilità della decisione, che viene ricondotta interamente al legislatore, il quale per vero ne sa poco o niente di quanto accade nella realtà e di quanto gli si fa dire sulla realtà. Per essere semplici, stabilire se si sia o meno trovato il luogo di destinazione ‘nel tempo più breve possibile’ ha quasi nulla da condividere con la volontà del legislatore, che al massimo può offrire un criterio elastico – i giuristi lo chiamano ‘standard’ – tutto il resto ce lo mette chi è chiamato a verificare se questa ‘brevità’ sia stata rispettata o meno, avuto riguardo al complesso delle circostanze del caso concreto. E peraltro, dovrebbe trattarsi d’una valutazione di fatto, come di fatto è verificare se la prova del danno sia stata offerta o meno.

La Cassazione c’entrerebbe poco. Il problema è che la Cassazione è Signora dei termini giuridici, del significato delle parole che lei amministra in tutta indipendenza, come meglio ritiene debba farsi. Sicché, talvolta l’area del ‘fatto’ copre l’intero spazio del processo ed i ricorsi vengono rigettati a batteria; talaltra – assai più raramente – tutto si trasforma in ‘diritto’ e la Cassazione s’intriga– nel nostro caso, con commendevole tempestività – d’ogni angolo del processo di merito, pervenendo alle conclusioni che più ritiene di dovere. Su cose di tal natura, separazione delle carriere e sorteggio del Csm poco possono, qualcosa in più la seconda, ma appena qualcosa. Fino a quando noi avremo esclusivamente dei giudici burocratici, professionalmente ben attrezzati all’uso dei loro strumenti di potere, ben poco ci sarà da fare per controllarne l’operato, più o meno arbitrario che sia. I ‘Signori del diritto’ sono e saranno sempre loro, dipende tutto però da come li si sceglie.

Il diritto è fatto di povere parole, dal multiplo significato – polisense, dicono i cultori della semantica – che viene ad esse attribuito da chi è chiamato a leggerle e a renderle ‘adatte’ al caso vissuto. In buona o mala fede che siano, ai giudici di Cassazione è affidato un compito per certi versi numinoso: accertare ‘l’esatta interpretazione della legge’ fardello, per quanto or ora detto, di fatto impossibile, stante il tratto polisemico dei lemmi di cui le leggi son tessute. E se a svolgere questo compito impossibile vengono applicate burocrazie prive di qualsivoglia responsabilità politica – intesa nel senso più ampio – anzi che menano vanto del non averne, non c’è da piangere sul latte versato quando si registrano gli esiti di ciò: dalla calza della buona, vecchia Befana vin fuori al mattino sempre ciò che ci s’è infilato la sera precedente.

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