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13 Marzo 2025 - 10:48
Donald Trump e Vladimir Putin
“Ci sentiremo in settimana”. Il negoziato comincia ora, con la delegazione americana a Mosca e l’incontro da remoto tra Donald Trump e Vladimir Putin che dovrebbe anticipare – il condizionale è sempre d’obbligo - la nuova stretta di mano a trattative concluse o almeno ben avviate. Non saranno brevi ma articolati e complessi. Difficile superare lo scoglio dell’Ucraina, considerati gli obiettivi dei regimi di Mosca e di Kiev e le reciproche diffidenze, attuali e storiche.
Più arduo ancora aggirare, poi, quello della Cina. Trump gioca contro il tempo, con le elezioni di mid-term nel 2026 a verificare la rotta della sua navigazione. Ma conta che già dalle prime miglia si confermi con un successo la volontà d’invertirla: dal confronto armato al diplomatico, dopo tre anni di guerra. Volodymyr Zelensky - preso per mano da Emmanuel Macron e Keir Starmer - ha accettato la tregua e di cedere, dopo il grano, pure le “terre rare”.
Pronto, verosimilmente, a rinunciare alla Crimea per l’impossibilità di riottenere il ‘regalo’ kruscioviano ma speranzoso di recuperare il Donbass. Non solo. Confida in ben altro. L’ingresso nell’Ue, che Bruxelles faciliterebbe; il mega-business della ricostruzione del Paese; e forse una forza internazionale di pace per garantire la sicurezza ucraina potrebbero assicurargli la pelle e un agiato futuro, a dispetto della carneficina e delle devastazioni per un conflitto che avrebbe dovuto evitare.
Di là dalla sorte del “mediocre attore” (come l’ha definito il presidente Usa) con meschine velleità dittatoriali e che presumeva di raccogliere a Washington gli applausi tributatigli nelle comparsate sui palcoscenici europei, è invece la sorte delle regioni russofone il tema centrale e più appariscente del negoziato. Kiev non può rinunciarvi, Mosca non può cederle. Non a caso, il Cremlino ha ribadito che il traguardo è un’architettura di pace, non la sospensione dei combattimenti (di cui potrebbe avvantaggiarsi l’esercito ucraino).
A ipotizzare un futuro compromesso, si potrebbe immaginare che al Cremlino sia riconosciuto di mantenere i territori –formalmente in un trattato o di fatto nel contesto di una soluzione ‘coreana’ e in prospettiva da sanare – in cambio della rinuncia a puntare su Odessa e della presenza in Ucraina di una forza militare internazionale semmai sotto bandiera Onu. Ma lasciamo le profezie ai chiromanti. L’obiettivo della pace in Ucraina resta, per Trump, propedeutico al recupero della Russia, spinta nelle braccia della Cina.
L’Europa doveva impedirlo e invece “ha fatto nulla finora” (sempre Trump) e non è più pensabile associare Mosca nella sfida planetaria con Pechino. Ricomporre l’Occidente euro-atlantico con l’Occidente euro-asiatico sarà compito di domani. Oggi va contemplata la ricerca di un equilibrio strategico tripolare cui piegare la Cina. Una Russia equidistante avrebbe un ruolo di bilanciamento.
E l’Ue? E’ dai primi passi verso una confederazione europea che si pone lo scopo di una difesa comune. Ma lingue, esperienze storiche e culturali diverse hanno continuato a nutrire egoismi statali invece d’ essere custodite nella cassaforte delle differenti ma convergenti identità nazionali. L’attuale megagalattico impegno per il riarmo in Europa si spiega guardando a chi conviene.
L’esame della spesa militare, infatti, offre risultati…disarmanti: i Paesi del Vecchio Continente sborsano parecchio in più della Russia, la cui forza militare convenzionale – la sola utilizzabile per immaginarie invasioni – risente dell’impegno dei governi post-sovietici verso la rifondazione dello Stato federale e del sistema economico, la riqualificazione di strutture e infrastrutture, l’amàlgama lento e difficile in una moderna società europea di una popolazione multinazionale e multietnica abituata da sempre alla dittatura dell’impero centralizzato e ritenuto ‘unificante’.
A testimoniarlo è proprio la difficoltà a riprendere parte degli storici territori russofoni in Ucraina. Tre anni e la riconquista è ancora incompleta. Trecento anni, forse, per ipotizzare l’Armata… Rotta giungere a Parigi inseguendo un neo-fuggiasco Napoleone. Più convincente a spiegare la straripante raccolta di denari per il riarmo dell’Ue, è volgere lo sguardo sulla crisi industriale che investe segnatamente Germania e Francia.
E dare un’occhiata alle crisi politiche, di leadership, che attanagliano – per fare qualche esempio – Francia, Germania e la Gran Bretagna intenta a riabbassare i ponti sulla Manica. Bastano, a testimoniare queste crisi, gli elenchi sia delle riduzioni di vendite e quindi di produzioni, sia dei cambi di governi e dielezioni anticipate, sia dei mutamenti nei mass media influenzati dai ‘padronati’ dei comparti in difficoltà. Il riarmo promette un ri-orientamento industriale che assicurerebbe un ‘ritorno’ iniziale di circa 45 miliardi di euro annui.
Ursula von der Leyen non ha lasciato buoni ricordi dopo circa sei anni alla guida del ministero della Difesa tedesco. Ora esclama - mentre in Romania si escludono persino i candidati più accreditati alla presidenza - che “i nostri valori di democrazia , libertà e Stato di dirittosono minacciati”. Può darsi, ma sbaglia direzione. Non certo da est, ché lo furono fino al primo aprile del 1991 quando, a precedere lo scioglimento dell’Unione Sovietica, il Cremlino decise quello del Patto di Varsavia. Ironia della sorte, ma significativa, l’impegno al ritiro delle truppe russe dai Paesi fino ad allora alleati, fu rispettato: avvenne entro il 1994, com’era stato previsto.
Ma proprio in quell’anno il presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton - rinnegando l’impegno preso dall’amministrazione di George Bush senior nel 1990 di non espandere la Nato verso est perché il nemico non c’era più - allargò praticamente fino ai confini della Federazione russa lo spazio potenziale dell’Alleanza Atlantica. In un’intervista al ‘The Atlantic’ spiegò ch’era preoccupato ‘di un eventuale futuro nazional-imperialismo di Mosca’. Cinque anni e l’Alleanza Atlantica apriva le porte a Polonia, Cekia ed Ungheria. Nello stesso 1999 la Nato bombardò (utilizzando anche proiettili all’uranio impoverito), l’unica ‘alleata’ della Russia in Europa, la Serbia, che venne mutilata del Kossovo, culla storica dei serbi cristiano-ortodossi, divenuti meno prolifici degli albanesi islamici.
Ai primi tre nuovi aderenti dell’ex Patto di Varsavia, si aggiunsero via-via tutti gli altri. Anche ex repubbliche dell’Urss. Questo, dopo che Mosca si era ritirata dalle cinque del Centrasia (Kazakhstan, Kirghizia, Tagikistan,Uzbekistan e Turkmenistan), dalle tre repubbliche del Baltico (Lituania, Estonia, Lettonia), dalla Bielorussia, dall’Ucraina e dalla Moldavia, dalle tre repubbliche delCaucaso (Georgia, Armenia e Azerbaijan).
Ora ipotizziamo che la storia avesse seguito un percorso opposto. Allo scioglimento dell’Alleanza Atlantica - perché caduto il motivo del ruolo di “contenimento” dell’Urss – immaginiamo che la Russia non avesse sciolto il Patto di Varsavia bensì accolto, uno dopo l’altro, non solo gli ex alleati Nato ma pure il Canada e il Messico, ad aggiungersi a Cuba, e costruito basi militari e installato missili, anche atomici alla frontiera con gli Stati Uniti… Sarebbe rimasta, la Casa Bianca, a guardare come lo è stato il Cremlino fino alla defenestrazione di Viktor Yanukovich nel 2014?
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