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15 Marzo 2025 - 09:20
La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen
Il recente annuncio del piano ReArm Europe da parte di Ursula von der Leyen rappresenta uno spartiacque nel dibattito sulla difesa e sulla sovranità nazionale all'interno dell’Unione Europea. L'ambizioso progetto, che prevede un aumento delle spese per la difesa fino a 800 miliardi di euro in quattro anni, ha generato reazioni contrastanti tra le istituzioni europee e i governi nazionali, evidenziando profonde fratture nel processo decisionale comunitario. A Strasburgo, il Parlamento Europeo ha approvato la misura con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni, conferendo all'iniziativa un apparente peso istituzionale. Tuttavia, la realtà politica nei singoli Stati membri racconta una storia decisamente più complessa e contraddittoria che merita un'analisi approfondita delle dinamiche in gioco. Il caso dei Paesi Bassi emerge come particolarmente significativo in questo scenario politico europeo.
L'Olanda si trova in una posizione paradossale che illumina le contraddizioni dell'intero progetto ReArm Europe. Da un lato, è un tradizionale e fermo sostenitore dell'Ucraina nel conflitto con la Russia, e quindi non può essere accusata di simpatie filorusse o di "putinismo"; dall'altro, il suo governo esprime una chiara opposizione all'aumento della spesa militare proposto da Bruxelles. Questa contraddizione assume contorni ancora più interessanti considerando che Mark Rutte (attuale Segretario generale della NATO e figura di spicco del partito che è alla guida della coalizione di governo olandese), si trova al centro di questo dilemma politico. La motivazione principale dietro il rifiuto olandese non è ideologica ma pragmatica: le preoccupazioni riguardano la gestione del debito pubblico.
I fondi destinati alla difesa, benché etichettati come "europei", provengono dagli Stati nazionali, i quali, in un periodo di difficoltà economica e in presenza di impegni già gravosi, esitano comprensibilmente a contrarre ulteriori debiti per più che raddoppiare le proprie spese militari in un arco temporale così ristretto. In sostanza, l'Unione Europea propone di escludere queste spese dal calcolo del Patto di Stabilità, offrendo persino garanzie per chi dovrà fare ulteriore debito, ma i governi nazionali rimangono scettici riguardo alla sostenibilità finanziaria di questo approccio. Da questa contraddizione nasce anche un’importante riflessione sul significato stesso della sicurezza e della sovranità nazionale. La proposta ReArm Europe si configura, infatti,come una sfida all'autonomia decisionale degli Stati membri in materia di difesa e pone il problema di come e se può essere affrontato il paradosso per cui gli Stati nazionali, nel tentativo di rivendicare la propria indipendenza strategica dagli Stati Uniti, rischiano di cederla progressivamente a Bruxelles. Nel panorama politico europeo attuale si delineano almeno tre posizioni distinte riguardo a questo piano.
C'è chi lo accoglie con favore vedendo in esso il segno di un’Unione più coesa e determinata ad affrontare le sfide internazionali con una voce unica. Al contrario, altri interpretano il ReArm Europe come un'ulteriore cessione di sovranità a Bruxelles, temendo una progressiva erosione dell'indipendenza decisionale degli Stati membri in settori tradizionalmente riservati alla competenza nazionale. Infine, esiste una terza posizione che, prescindendo dalle considerazioni sulla sovranità, contesta l'allocazione stessa delle risorse, ritenendo che quegli 800 miliardi di euro potrebbero essere meglio impiegati in altri ambiti. Mentre, insomma, i leaders delle istituzioni UE guarderebbero tendenzialmente a un ipotetico modello difensivo autonomo e integrato, nell’ambito dei governi nazionali, vincolati da restrizioni di bilancio, pressioni interne e logiche considerazione sulla non delegabilità del concetto di difesa nazionale, si esprimono resistenze che rivelano l'eterogeneità delle priorità nazionali. Questo dibattito solleva interrogativi fondamentali sul processo decisionale europeo.
A chi spetta, in ultima analisi, la decisione sulla spesa militare? Ai parlamenti nazionali, democraticamente eletti e responsabili verso i propri elettori o alle istituzioni europee, che aspirano teoricamente a rappresentare un interesse comune politicamente non meglio definito e definibile, ma sono sostanzialmente e giustamente percepite come distanti dalle preoccupazioni quotidiane dei cittadini? Il piano ReArm Europe porta alla luce queste tensioni irrisolte, costringendo i leader europei a confrontarsi con le antinomie e le incongruenze del progetto di integrazione europea così come oggi strutturato. In questo crocevia di interessi e responsabilità contrastanti, il futuro dell'Europa appare avviluppato in una fitta rete di contraddizioni, dove ogni scelta comporta compromessi difficili da accettare per tutte le parti coinvolte. La vera sfida non è semplicemente reperire e allocare 800 miliardi di euro per la difesa, ma piuttosto trovare un equilibrio, fragile e quasi utopico, tra indipendenza nazionale e solidarietà europea, tra autonomia strategica e integrazione, tra ambizioni comuni e realtà economiche divergenti. Il percorso si rivela,così, disseminato di ostacoli e paradossi, dove ogni decisione pesa come un enigma irrisolto nel grande mosaico delle aspirazioni nazionali e delle necessità collettive.
Il piano ReArm Europe, nelle sue ambizioni e contraddizioni, non è altro, insomma, che lo specchio di un’Unione Europea che è priva di identità e di collante politico e che non sa trovare un’unica voce nelle questioni fondamentali della sua esistenza, perché priva di quelle solide radici che essa stessa si ostina a recidere e sterilizzare, in ossequio a innaturali modelli politico culturali e a balzani ideologismi “politicamente corretti”. È, insomma, un soggetto ibrido, privo di una “visione” in grado di incidere sulla grande Storia e dunque il risultato non può essere diverso da ciò che abbiamo quotidianamente sotto i nostri occhi.
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