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L'intervento

Diritti umani, fine vita e obiezione di coscienza

La mancanza di una legge chiara apre la porta a interpretazioni soggettive e situazioni ambigue, mettendo a rischio i diritti dei più deboli

Diritti umani, fine vita e obiezione di coscienza

Il diritto alla vita è senza dubbio un pilastro della nostra Costituzione. Ma cosa accade quando si scontra con altri diritti, altrettanto fondamentali? Il dibattito su fine vita, suicidio assistito e terapia del dolore si scontra con limiti costituzionali che, almeno in teoria, dovrebbero essere invalicabili.

La nostra Carta, con gli articoli 2, 3 e 32, tutela il diritto alla vita, rafforzato dall’articolo 2 della Cedu, che esclude qualsiasi privazione intenzionale della vita stessa. Eppure, nel 2018, una storica ordinanza della Corte Costituzionale ha aperto uno spiraglio, suggerendo che l’aiuto al suicidio non sia sempre vietato. Una decisione che mina il principio cardine del diritto alla vita, pur non arrivando a riconoscere un vero e proprio “diritto a morire”.

Nel 2019, la stessa Corte ha provato a colmare il vuoto legislativo, invadendo – secondo molti – il campo della politica e della scienza medica. Ma in questo scenario, quale ruolo hanno i medici? Oggi non esiste alcun obbligo per loro di facilitare il suicidio assistito. Se un paziente rifiuta le cure, il medico ha il dovere di informarlo sulle conseguenze e di offrirgli supporto psicologico. Ma oltre questo confine, il dovere del medico si interrompe: non è tenuto ad assecondare un suicidio né a essere complice di una scelta che potrebbe essere dettata da una sofferenza momentanea e non definitiva.

La medicina, per sua natura, è chiamata a curare, non a sopprimere. Il rischio? Creare una società in cui alcune vite vengano considerate di “serie B”, spingendo alcuni pazienti fragili a decisioni dettate dalla disperazione. L’articolo 8 della Cedu impone il rispetto della dignità umana, eppure, quante volte un paziente può essere portato a scegliere il suicidio non per volontà autentica, ma per il peso della propria condizione?

Qui si insinua un dilemma: chi tutela il paziente da se stesso? Un’altra questione spinosa è la competenza legislativa: possono le Regioni legiferare in materia? L’Avvocatura dello Stato, nel novembre 2024, ha ribadito che la questione è di competenza statale, escludendo la possibilità di interventi regionali. E allora, chi deve decidere?

Il ruolo del medico è cambiato nel tempo. Un tempo depositario assoluto della verità, oggi è sempre più guida e compagno del paziente nella scelta delle cure. L’autodeterminazione è sacrosanta, ma il consenso informato deve essere garantito e realmente consapevole. Senza un’informazione completa, il paziente può essere privato della possibilità di scegliere davvero.

E poi c’è la questione dell’obiezione di coscienza. La clausola di coscienza tutela i medici che, per ragioni etiche, rifiutano di praticare determinate procedure. Un diritto inviolabile, ma che non deve trasformarsi in un ostacolo alla tutela del paziente. Prendiamo il caso dell’interruzione di gravidanza: un medico obiettore può rifiutarsi di eseguire l’intervento, ma il sistema sanitario deve comunque garantire la prestazione, senza pregiudicare la salute della donna. Il problema centrale resta sempre lo stesso: il vuoto normativo.

La mancanza di una legge chiara apre la porta a interpretazioni soggettive e situazioni ambigue, mettendo a rischio i diritti dei più deboli. E quando la legge non è chiara, a farne le spese sono sempre i più fragili. Serve un intervento legislativo forte, che non lasci spazio a dubbi e incertezze. Perché quando si tratta di vita e morte, non ci si può permettere il lusso dell’indeterminatezza.

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