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La riflessione
17 Marzo 2025 - 09:33
Si commentano le forze della natura? Si può giudicare con le categorie etiche quanto decide - decide, si fa per dire - la terra di far di noi? Certamente no. La vicenda bradisismica che stiamo vivendo con un affanno via via più assillante ci fornisce un ottimo esempio dell’impotenza umana dinanzi agli eventi della natura, da noi del tutto incontrollabili, per la gran parte imprevedibili, rispetto ai quali non possiamo che assumere una postura d’accettazione, mettendo da parte ogni umana tracotanza.
È ovvio che è una postura difficile da acquisire. La paura ed il sentimento di frustrazione che l’impossibilità di difendersi trasferisce in chiunque deve subire l’incertezza, un’incertezza nella quale può andarne della sopravvivenza personale e collettiva, fanno sì che si reagisca in modo per così dire irrazionale: ma si tratta d’un’irrazionalità che ha una buona dose di ragioni, non foss’altro perché consente di scaricare una parte delle tensioni, trasferendole sul capro espiatorio del momento.
È una dinamica della psicologia collettiva ben noto all’antropologia ed agli studiosi delle più risalenti società del passato. Individuare il colpevole di ciò che non può ascriversi a nessuno, rende l’essere umano – entità ontologicamente precaria, costitutivamente insicura, pronta a cedere alle emozioni – appena appena un po’ più basato. Sapere che esiste il colpevole significa anche sapere che c’è qualcuno con cui potersela prendere e dunque ridurre la vaghezza dello scenario, che è quanto più destituisce di fondamento noi uomini.
Ciò è quanto, banalmente, spiega le reazioni e le proteste di questi difficili giorni, in cui vediamo susseguirsi eventi sismici d’intensità importante, a frequenze assai ravvicinate, da togliere il sonno. E questo spiega anche le continue rassicurazioni che le autorità sono costrette a dare, usando espressioni anfibologiche, ricche d’ambiguità, che mentre affermano negano.
Ma non potrebbe essere che così: per la semplice ragione che non v’è possibilità di prevedere in modo scientificamente attendibile quel che potrebbe accadere, nemmeno di qui ad un ora, e nemmeno in qual luogo: sol che si pensi che secondo alcuni studi, la caldera sulla quale da sempre siamo seduti si costituisce di una ventina di crateri, in parte anche sottomarini, ovviamente assai difficili da monitorare, sempre che un’eventuale eruzione non decida di trovare un’altrastrada per farsi ammirare.
Se si pensa che nel 1831, presso Pantelleria, un’eruzione fece nascere un’intera isola, di lì a qualche anno inabissatasi, si comprende bene quanto imprevedibile e fluido sia il nostro futuro, cosa peraltro scontata. Se quindi ben poco c’è da fare rispetto ai fenomeni della natura ingovernabili dall’uomo, evidentemente l’uomo potrebbe far uso della propria pretesa capacità di giudizio per evitare di mettersi nelle condizioni peggiori per fronteggiarli.
È chiaro che in zone caratterizzate da un altissimo rischio vulcanico – tra le principali al mondo – zone che non per altra ragione si chiamano flegree, sarebbe stato del tutto sconsigliabile realizzare concentrazioni antropiche. Sarebbero stati, al contrario, da favorire, lentamente e nel tempo, progressivi alleggerimenti della popolazione.
Sarebbe stato indispensabile, al contrario, vigilare con assoluto rigore sulla proliferazione abnorme di edilizia di pessima qualità e spesso e volentieri anche del tutto contraria alle previsioni di pianificazione urbanistica e paesaggistica a parole insistenti in queste zone.
Sarebbe stato necessario svolgere martellanti campagne di sensibilizzazione, perché le persone comprendessero da sé dell’assoluta inopportunità d’insediarsi e soprattutto ammassarsi in ristretti areali a rischio continuo di veder sgorgare lava dalle proprie viscere. Ed invece, la totale incomprensione di ciò che significa essere responsabili guide delle proprie comunità ha fatto sì che questi problemi fossero sistematicamente nascosti, elusi, sottratti alla sensibilità della pubblica opinione, che è l’unica vera risorsa per evitare condotte esse sì davvero irrazionali e foriere di conseguenze potenzialmente disastrose.
Ora la situazione è quella che è e nell’immediato c’è ben poco da fare, se non sperare nella protezione dell’ultraterreno, che nel bene e nel male è sempre l’ultima risorsa alla quale l’uomo ricorre dinanzi alle difficoltà insormontabili della vita. Ma certo da queste esperienze si dovrebbe trarre sprone per invertire rotte e politiche.
Non è un qualcosa nel quale c’è molto da credere. Il bradisismo non è fatto dei nostri giorni, ma fenomeno da sempre presente e che all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso fece tremare più o meno quanto adesso. Più o meo quanto adesso ci si preoccupò, più o meno quanto adesso si facevano previsioni nelle quali a non credere erano quelli stessi che le propalavano; più o meno quanto adesso si andava alla ricerca del capro espiatorio o si abbandonavano case e città.
Ma nulla di concreto si è fatto nei successivi quaranta anni, durante i quali pur qualcosa avrebbe potuto provarsi ad immaginare, quanto meno in termini di messa in sicurezza delle abitazioni più precarie; si sarebbe potuto provare a pianificare decongestionamenti urbani, a creare delle efficaci vie di fuga, non limitarsi a segnalare improbabili percorsi, che sono impraticabili già nella normalità del quotidiano.
Ed invece la situazione è esattamente la stessa che ci hanno lasciato quei difficili momenti di oltre quarant’anni fa. E dunque c’è da prevedere che, se la si scamperà anche questa volta, tra altri quarant’anni le cose non saranno molto differenti, se non anche peggiori. Ma qui sto azzardando, perché cosa ci sarà tra altri quarant’anni nel mondo è davvero assai difficile a dirsi, e dunque è forse inevitabile che tutto continuo ad andare per la sua strada.
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