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la riflessione
07 Aprile 2025 - 10:02
Marine Le Pen
I tempi son quel che sono, tempi inquieti, irrequieti, quando prevale lo spazio della prateria piuttosto che quello della società organizzata intorno alla razionalità delle città, dei luoghi con compiti assegnati, dei ruoli, condivisibili o no che siano, ma almeno in grado d’affidar compiti, segnalare obiettivi, giudicare in ragione dei risultati.
Cosa intendo dire? Che le istituzioni stanno alquanto diffusamente smarrendo il senso della loro funzione, che non è genericamente morale – non ha intenti savonaroliani d’elaborazione d’una realtà dura e pura – bensì di tenuta complessiva del sistema, nel rispetto di regole, anche non scritte, che permettano a ciascuno di svolgere il proprio compito in un’accettabile, reciproca tolleranza.
Queste vaghe considerazioni sono da ultimo ispirate al caso Le Pen: la Marine national, qualche giorno fa condannata per peculato per distrazione con riferimento a condotte risalenti a non meno d’una diecina d’anni orsono. Una condanna che – almeno nelle previsioni – avrebbe l’effetto d’eliminare dalla competizione elettorale per la presidenza della République la candidata al momento in grado di conseguire il maggior numero di consensi, e certamente la più nota tra le personalità politiche oggi in campo nell’agone d’oltralpe.
Di cosa lei – ed insieme a lei un manipolo di condannati, suppongo scelti a caso, dato che il fenomeno sembrerebbe essere parecchio ampio – è sta accusata? D’avere utilizzato assistenti pagati dal Parlamento Europeo per attività non necessariamente e direttamente collegate al mandato parlamentare, ma invece riferibili in senso più ampio all’attività politica da essa svolta nel Paese di provenienza.
Non la si accusa, si badi bene, d’avere impiegato l’auto di servizio per far la spesa quotidiana, come pure talora il malcostume politico ha dato prova di saper fare; bensì d’aver destinato il lavoro dei suoi assistenti parlamentari a politica interna e non europea. Questa la sostanza, al di là delle forme sempre suscettibili di distinzioni, affinamenti, sofismi. Tutto ciò è stato appurato a distanza di molti, molti anni dai fatti, sulla base di indizi, supposizioni, delazioni non necessariamente disinteressate.
Ora, passi pure che sulla base di denunce provenienti da politici di parte avversa s’avvii un’indagine non poco accidentata: qualificare un’attività politica rigandone i confini con la precisione della geometria è davvero impresa si direbbe azzardata.
Basti pensare che un parlamentare europeo quando agisce non è un funzionario amministrativo, impegnato incompetenze assegnategli per legge: è un politico che fa politica, acquisisce gli elementi e consensi per svolgere il proprio mandato come e dove può, non bada ai confini del territorio bensì ai fini del proprio mandato che sono politici, appunto, dunque sovrani.
Sicché, valutarne l’azione con il metro della competenza burocratica è già una non lieve violenza, una scelta eterogenea ed eloquente. Ma passi pure, si diceva. Passi pure che si sostenga d’aver accertato in primo grado la colpevolezza per l’uso distorto di quelle risorse, perché gestite in modo accentrato dal partito e non riferibili all’attività del singolo parlamentare europeo bensì del partito.
Stiamo sempre parlando, dunque, d’una valutazione altamente opinabile, perché nascente da una qualificazionedell’attività – politica in senso ampio o strettamente riferita al mandato parlamentare europeo? – dalla difficile delimitazione, quanto difficile è il definire tutto quanto è politico e per questa stessa ragione non giuridico, bensì da svolgersi nei confini della giuridicità.
Stiamo parlando dunque di qualcosa molto sfuggente, per non dire d’impalpabile, perché dire che si pagavano persone che lavoravano per il partito e non per il parlamentare europeo che da quel partito proveniva e per di più ne era a capo, è dire qualcosa che, già intuitivamente ed al di là delle sottigliezze leguleie – che hanno la loro funzione, ma si prestano altresì molto docilmente alla strumentalizzazione – lascia assai dubbiosi.
Ma, ripeto, passi pure (e come si vede, io non sono tanto propenso a lasciarlo passare). Epperò, come può anche credersi alla necessità d’applicare in esito alla sentenza di primo grado – suscettibile per tutto quanto detto di riforma, sol che il criterio di discrimine delle attività si sposti impercettibilmente – anche l’interdizione dai pubblici uffici immediatamente operativa, un’interdizione che ha come effetto non proprio imprevedibile far fuori dalla competizione elettorale il candidato coperto da oltre un terzo del Paese e potenzialmente in grado di conquistare l’Eliseo?
Si dice e reputa che l’Erdogan, il sultano turco, sia anche un satrapo, un dittatore. È accaduto ad Ancara giorni fa qualcosa d’analogo (sia pur meno raffinato) con l’arresto del sindaco della città e suo maggior avversario. Dietro le forme della legge, possono perseguirsi fini vari: legge per legge, anche nel Bosforo ci sono giudici che sanno applicare sagacemente il diritto. Si dice che le sentenze vadano rispettate, anche se graziosamentes’ammette la facoltà di criticarle. Vanno rispettate, altrimenti lo Stato di diritto cade in pezzi.
Ed è vero, la sentenza è la voce ultima dello Stato, la sua massima e più vincolante espressione. Ma la sentenza, perché lo Stato di diritto resti in sesto, dev’essere anche manifestazione credibile dell’attuazione di regole previe, misurata, prudente, attenta al complesso delle conseguenze.Orbene, è credibile mai che in una simile vicenda – la Le Pen non è stata scoperta nell’uscir di casa con valige rigonfie di danaro europeo, come pure s’è visto accadere e come pure s’è visto com’è andata a finire.
La Le Pen è accusata d’aver usato quel danaro per finalità politiche diverse da quelle per le quali quel danaro è stato stanziato: una sottile e discutibile forma di distrazione. Ed è immaginabile che la maggior parte degli esseri senzienti e pensanti credano nella necessità d’affibbiarle una preventiva sanzione interdittiva – preventiva rispetto alla condanna definitiva – che l’espelle dalla più alta competizione politica francese per la quale è altamente accreditata?
Io credo di no e credo anche che questo uso della giustizia sia assai più lesivo dello Stato di diritto della condotta sanzionata, perché una giustizia che induce a naturale diffidenza mina le basi di credibilità dello Stato molto più della condotta del singolo che si macchi d’illecito: in quanto si proietta universalmente sulle istituzioni rendendole non più affidabili, non più funzione della comunità, ma strumento di temibile arbitrio. Mia opinione, naturalmente.
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