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La riflessione
14 Aprile 2025 - 08:58
Vincenzo De Luca
Chiusa come sappiamo la vicenda della candidabilità ad un terzo mandato di presidente della Regione Campania dell’onorevole Vincenzo De Luca, qualche riflessione che provi ad astrarre dalle violente polemiche di questi ultimi giorni, forse è possibile imbastirla, anche se ancora in ‘questi giorni’ siamo.
Le conclusioni cui è pervenuta la Corte costituzionale sono a mio avviso abbastanza scontate. È giurisprudenza costante, quella secondo la quale le norme che sopraggiungono s’applichino alle situazioni giuridiche che si affaccino dopo la loro entrata in vigore. In pratica, una candidatura alla Regione Campania, come una alla Regione Veneto, deve scontare i mandati in precedenza già svolti da parte dei Presidenti uscenti e quindi anche quelli che si sianoconsumati prima che il nuovo regime elettivo entrasse in vigore.
Ma inutile invischiarsi in simili sottigliezze giuridiche, anche perché sono il primo a dire che le conclusioni della Corte costituzionale avrebbero ben potuto essere differenti, come quasi sempre nelle cose giuridiche, e che la Corte è un’istituzione altamente politica, e non solo nel senso che non c’è decisione colà assunta, la quale non debba fare i conti con l’intrinseca dimensione politica del diritto costituzionale.
Se poi si considera che in questo specifico contenzioso era in gioco un conflitto tra poteri dello Stato – quello centrale e quello regionale – s’intende agevolmente come e quante componenti abbiano potuto, e necessariamente dovuto insistere nella – lunga – discussione svoltasi tra i togati nelle segrete della camera di consiglio.
Ma il tema non è a mio avviso questo. È molto più radicale ed attiene ai limiti imposti alla volontà degli elettori attraverso e leggi dello Stato. Non c’è dubbio che l’articolo 1 della Costituzione, nell’assegnare la sovranità della Repubblica al popolo, stabilisce ad un tempo un forte vincolo, quando dispone che lo stesso popolo «la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Dunque, quella del popolo è indubbiamente una sovranità limitata, e non potrebbe esser che così, altrimenti si sarebbe dinanzi ad un regime d’anarchia, privo di regole ed istituzioni. Il problema è che però ogni limite dev’esser giustificato nell’interesse del popolo, deve trovare ragione nell’interesse della collettività stessa dato che, come ricordava meglio d’altri già Baruch Spinoza nel Trattato politico, i patti non possono avere alcuna validità se non in ragione dell’utilità che producono tra i paciscenti, e il principio massimamente ha da aver luogo quando s’istituisca una Repubblica (cap. XVI).
Coniugato al concreto, alla stregua del patto fondativo della Repubblica, ogni limite alla volontà dell’elettore trova giustificazione solo se utile effettivamente a salvaguardare il suo interesse di cittadino e dunque l’efficiente gestione della cosa pubblica: altrimenti è arbitrio. La storia (relativamente) recente della nostra, di Repubblica, avrebbe dovuto insegnarci che l’interruzione ‘violenta’ dei processi politici, difficilmente porta a qualcosa di buono.
Mi riferisco, evidentemente, all’immane tragedia, per la fisiologia dei processi politici, della – chiamiamola così – ‘parentesi’ di tangentopoli. La decapitazione di un’intera dirigenza politica – peraltro tutt’altro che eccellente, per una sua non insignificante parte – operata attraverso una giacobina mano giudiziaria, ha fatto sì che la vita politica non evolvesse attraverso percorsi d’opportuna maturazione e di ricambi graduali e soprattutto di processi imputabili alla consapevolezza degli elettori: sicché, improvvisatori d’ogni sorta si son trovati inaspettatamente proiettati in luoghi e contesti di cui nulla potessero sapere. Con conseguenze ancora oggi gravanti.
Ben s’intende, anche questa è storia e se s’è verificata vuol dire che doveva verificarsi e comunque è storia. Ma di certo, quando s’interviene dall’esterno nei processi – tendenzialmente sovrani – della politica in una democrazia, le conseguenze sono del tutto imponderabili e comunque traumatizzanti. Ora, per venire al caso, c’è da chiedersi se fosse davvero necessario imporre il limite delle due candidature alla carica di presidente di Regione. Nutro forti dubbi.
Questi limiti seguirebbero lo scopo d’impedire che la lunga detenzione del potere possa far sì che sotto logore forme democratiche s’annidino poteri personali, satrapie mascherate. Questo può certamente avvenire in determinate condizioni: ad esempio nelle piccole realtà comunali, dove il rapporto ad hominem è molto spiccato e la lunga detenzione del potere locale può impedire la libera formazione delle volontà elettorali; come può avvenire quando ci si trovasse in presenza di cariche che assicurino la detenzione della sovranità dello Stato: si pensi ad un’elezione diretta del capo di un governo, che leghi a sé anche la durata del Parlamento: in questo caso l’ampiezza dei poteri può far correre seriamente il rischio della trasformazione d’una democrazia in un regime personale, giacché vaste e sovrane sfere di dominio si perpetuerebbero.
Ma è davvero credibile che una tale situazione si possa verificare nella dimensione regionale?, una dimensione dove sì s’esercita, non v’è dubbio, notevole potere, ma stiamo pur sempre parlando d’un potere ‘regionale’ appunto, fatto di azione essenzialmente amministrativa, nel senso che anche la legislazione regionale non ha alcuna possibilità d’incidere sugli assetti costituzionali dello Stato.
Peraltro tali assetti sono preservati dalla Corte costituzionale, organo quanto mai vicino al potere centrale, essendo frutto della designazione di apparati centrali e delle più alte magistrature, espressione queste ultime delle forze storicamente più conservatrici in qualunque entità sovrana?
Ed allora se è così, ovviamente bisognerebbe più lungamente fermarsi sul tema, l’aver divietato una terza candidatura può costituire un trauma notevole per lo scorrere dei rapporti politici, per il buon andamento dell’azione amministrativa, per l’adeguata maturazione dei processi di ricambio: soprattutto può significare una non giustificata ferita alla sovranità popolare che può costringersi solo eccezionalmente quando si tratti della scelta di rappresentanti, pena lo snaturamento, questa volta sì davvero, dei processi democratici e della stessa formazione del senso di responsabilità politica nel cittadino elettore, avvertito quale pupillo sotto tutela.
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