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L'opinione
18 Aprile 2025 - 11:09
Il governatore Vincenzo De Luca
La vicenda del terzo mandato per il Presidente della Regione ha mostrato tutti i piccoli vizi della politica contemporanea. Le leggi sono abiti che si tagliano su misura per servire interessi particolari e contingenti. La democrazia viene vissuta come potere sul popolo. Le istituzioni hanno una gestione proprietaria.
La giustizia è tale solo per chi ottiene ragione. Non è un caso che la sentenza venga commentata, da giorni, con toni trionfanti da chi si sente avvantaggiato e con cadute di stile da parte di chi si ritiene vittima di un sopruso. Neppure il tempo per il deposito delle motivazioni. Ma, si sa, la politica oggi è frettolosa. Non si concede più i tempi della riflessione. È dichiarativa e apparente. E, peraltro, nonostante la reiterata rivendicazione di autonomia dalla magistratura, è da essa e con essa che si tessono le incerte tele delle strategie partitiche.
Il no della Corte Costituzionale, con buona pace dei motivi, che verranno depositati, è una sferzata al malcostume. L’etica della politica insegnava un tempo che le regole del gioco non si cambiano a ridosso del voto e che esse debbano essere frutto di largo consenso. Comunque sia la pronuncia ha rimesso in movimento le segreterie di partito, rimaste con il fiato sospeso per mesi. Apparentemente si è risolta l’empasse in cui si è trovata la regione Campania.
Si iniziano a serrare i ranghi per la prossima campagna elettorale. Il voto potrebbe tenersi tra settembre di quest’anno e febbraio del 2026. 5/10 mesi per mettere sul tavolo idee e progetti per la regione e per i suoi cittadini e per formare le squadre. Purtroppo, la tecnica, alla quale ci ha abituati la politica contemporanea, parte dai numeri per arrivare alle proposte.
Le coalizioni si formano sulla somma dei voti che presumibilmente si otterrebbero mettendo insieme più soggetti, dimentichi dell’antica regola secondo cui “in politica due più due non sempre fa quattro” e, ancor più, dell’insegnamento degasperiano, che invita a tenere presente che “La coalizione non è un’alleanza qualunque.”.
Una coalizione che metta al suo interno differenze incomprimibili al solo fine di guadagnare la vittoria non può essere adatta al governo del bene comune. E’ questo approccio che spiega il perché della caducità della rappresentanza. La legge elettorale ha il suo peso nel determinare la stabilità dei governi, ma quel che più incide è la costruzione di intese capaci di esaltare l’apporto valoriale di ciascuna componente in un processo di sintesi che garantisca il rispetto delle singole culture.
Se ciò non avviene, si determina il caos e l’immobilismo. I cartelli elettorali dovrebbero essere spazzati via da un popolo capace di riappropriarsi della propria sovranità. Ma ci vorrebbe anche un leader! Mancando questo e la volontà di combattere per migliorare il mondo, per ora ci limitiamo a far di conto. Spazzati via i tatticismi, restano, dunque, le percentuali ottenute e ottenibili. Il dato da cui partire è quello delle ultime europee – per quanto si tratti di un voto diverso da quello delle regionali, non si può tornare ai risultati del 2020, perché da allora il mondo si è stravolto.
Nel 2024 il primo partito era il Pd con il 22,2%, a seguire i 5Stelle con il 20,77%, Fratelli d’Italia con il 19,42%, Forza Italia-Noi Moderati-Ppe con il 10,82, Alleanza Verdi e Sinistra 6,97, Stati Uniti d’Europa 6,79, Lega Salvini Premier 5,77%, Azione 3,88%. L’ultimo sondaggio, realizzato da Youtrend, conferma grossomodo lo scenario europeo, fatta eccezione per la Lega, che perderebbe circa 2 punti.
Quindi Sinistra – Pd, Avs e Sude – e Centrodestra – FdI, FI-Noi Moderati e Lega – sarebbero in quasi pareggio, la prima con circa il 36% dei voti e il secondo con il 35%. Questi dati, però, non considerano il fattore De Luca. Se, come sembra, il Presidente uscente fosse della partita con una o più liste nel campo di sinistra, i 5Stelle non giocherebbero il ruolo di ago della bilancia.
E allora l’incitamento al campo largo, sostenuto da chi ritiene che il Modello Manfredi sia replicabile, potrebbe perdere vigore. In tal modo potrebbero formarsi degli schieramenti più simili a delle coalizioni di governo che a delle alleanze di scopo e gli elettori potrebbero essere messi in condizione di scegliere tra proposte diverse.
Manca in questo quadro il peso dell’area moderata, rappresentata in Campania, come da sondaggio, dal 3,5% di Azione e da una moltitudine di simboli vicini all’1%, per un totale di circa il 10%. Sperare che questo agglomerato possa esprimersi unitariamente è velleitario; sono troppi i personalismi che lo animano.
Ma auspicare che possa distribuirsi in maniera da poter incidere sulle politiche future è legittimo. Se il centro popolare, sociale, riformista e liberale si rendesse conto di essere ancora vivo, potrebbe iniziare dal laboratorio della Campania a gettare le basi per una mitigazione delle contrapposizioni e per una riscoperta dei valori che di questa cultura sono stati, da sempre, l’emblema e la forza.
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