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L'opinione
19 Aprile 2025 - 11:53
La premier Giorgia Meloni
A dar retta a quanto pubblicano i giornali in questi giorni a ridosso della sua delicata missione negli Usa, Giorgia Meloni sarebbe pronta a rinunciare al Veneto pur di non irritare l’irrequieto Salvini. Nelle puntate precedenti, come si ricorderà, i dirigenti del Carroccio erano arrivati addirittura a minacciare il sabotaggio della coalizione se il dopo-Zaia non avesse recato il sigillo della continuità leghista. Sempre i giornali informano che la premier si sarebbe acconciata a rinfoderare il suo proposito di conquistare per Fratelli d’Italia una Regione settentrionale per poi rifarsi in Lombardia nel 2028 (campa cavallo!). Storie di ordinaria trattativa politica, si dirà. Ed è vero. Tuttavia, unendo i puntini del risiko in corso in Veneto con quelli lasciati in modalità “sospensivi” dalla sentenza con cui la Consulta ha mutilato la legge Calderoli sull’autonomia differenziata, il disegno che ne viene fuori somiglia molto alla vecchia Padania vagheggiata da Bossi. Conservare la guida del Veneto, avendo già la presidenza della Lombardia e del Friuli Venezia-Giulia, significa infatti disporre delle premesse politico-territoriali oltre che di quelle giuridico-costituzionali, irresponsabilmente concesse a suo tempo dalla sinistra con la riforma del Titolo V, per realizzare la macro-regione settentrionale. Chi pensasse ad un’esagerazione è pregato di rileggere il penultimo comma dell’art. 117, che testualmente recita: “La legge regionale ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni”. Più chiaro di così. Ad ogni buon conto, significa che già oggi, a Costituzione vigente, nulla vieta alle Regioni di dotarsi di un’assemblea legislativa tutta loro (il parlamento del Nord, ad esempio), con lo Stato ridotto a mero spettatore. Risultato: che si riscriva o no la legge Calderoli alla luce dei pesanti rilievi mossi dalla Consulta, nulla cambia perché è il Titolo V made in sinistra a contenere in sé l’innesco di una dinamica di cui si conosce solo l’inizio (autonomia) ma non anche la fine, anzi “il” fine (secessione?). Non lo vede solo chi ha gli occhi foderati di irrancidito prosciutto ideologico. Attivare e far esplodere tale innesco è solo questione di volontà politica. Se finora non è accaduto è perché il botto avrebbe disturbato la strategia “nazionalista” racchiusa nella formula “Salvini premier”. Ma ora che il sogno di un leghista a Palazzo Chigi è poco più che un miraggio chi può garantire che quella stessa strategia non resti strozzata dal rigurgito nordista? Le premesse perché una Lega in evidente avaria di consensi, soprattutto nei suoi antichi territori di origine, non torni a scommettere tutto sulla ridotta identitaria ci sono tutte. Se necessario, anche contro il suo stesso leader, la cui postura sovranista in funzione “spina nel fianco” di Meloni è destinata a rivelarsi del tutto velleitaria oltre che fuori tempo massimo. I proconsoli del Nord l’hanno malvolentieri assecondata quando il vento del consenso gonfiava le vele di Salvini, ma non sono più disposti a subirla oggi che sondaggi avari segnalano percentuali ad una sola cifra. Inquadrata dunque così, la presidenza del Veneto è molto di più di una semplice pedina sulla scacchiera della trattativa sulle Regioni al voto nel prossimo autunno: è l’uscita di sicurezza dei governatori “padani” verso l’autonomia differenziata qualora la legge Calderoli s’impantanasse definitivamente. Nulla di strano, ci mancherebbe: la Lega fa il suo mestiere di partito autonomista e nordista. Resta solo da auspicare che anche la destra custode dell’unità e dell’identità nazionale non manchi di fare il suo.
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