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L'intervento

Quei borghi di Nazzaro dove “sparava la Gloria”

Mai come in questi ultimi tempi, dal post Covid in poi, i rapporti tra città e borghi si vanno sempre più intensificando

Quei borghi di Nazzaro dove “sparava la Gloria”

Carlo Nazzaro

Mai come in questi ultimi tempi, dal post Covid in poi, i rapporti tra città e borghi si vanno sempre più intensificando. In passato i borghi garantirono la tradizionale e ambita vacanza estiva, cui si diede il nome appariscente, pomposo, di villeggiatura. Oggi, invece, si avviano ad essere mete di più lunghi soggiorni da soddisfacenti comfort.

Un fenomeno dai notevoli benefici, ideale per svelenire quel carico di stress, derivante da contesti urbani, sempre più inurbani e invivibili. Se si fosse più coerenti nel favorirlo, il mondo sarebbe migliore: ci abitueremmo a superare molte criticità invece di rassegnarcene.

Ciò mi fa piacere scriverlo, per ricordare, nel modo più semplice e memore di antichi valori, il cinquantenario della morte, avvenuta a Napoli il 24 gennaio 1975, del grande giornalista e narratore Carlo Nazzaro - direttore del “Roma” negli anni 30, poi condirettore de “il Mattino”, ai tempi della direzione di Giovanni Ansaldo. Che amò e esaltò Napoli, giova sottolinearlo, non per il suo “pittoresco convenzionale” ma per la sua antica civiltà, la credenziale più qualificante.

Allo stesso tempo, però, Don Carlo, così affettuosamente chiamato quale perfetto gentiluomo, non dimenticò mai la fiera e cara terra madre Irpinia, la civiltà dei borghi, sottolineandone l’ammirazione che avevano per l’ex Capitale. Stupivano di lui la felice duttilità ispirativa, i racconti delicati degli amati luoghi dell’adolescenza e quel suo modo semplice, amabile di divulgare la cultura.

Negli anni del successo, da profondo conoscitore della città, fu ineguagliabile e esclusivo cicerone, richiesto e gradito da prestigiose personalità di fama internazionale - parliamo di Pirandello, Renato Simomi, Cilea, Eleonora Duse, Emma Grammatica in visita a Napoli - per meglio conoscerla e apprezzarla attraverso la sua affabulante narrazione. Nonostante tanti coinvolgenti impegni, Nazzaro non saltò mai la lettura quotidiana, come un “ufficium” monastico, delle edizioni locali de “il Mattino”.

Che avveniva con particolare trasporto, annotando le notizie più curiose e originali, fonti poi dei suoi mirabili e apprezzati elzeviri, gli articoli di terza pagina tra giornalismo e letteratura. A riprova di quanto affermiamo , abbiamo scelto un suo elzeviro dal titolo : “I giorni della Pasqua”, in cui ci fa rivivere personaggi e scenari lontani nel tempo ma vicini nel culto dei buoni sentimenti.

Lo scenario è la casa della nonna, Donna Lorenzina, laboratorio domestico dei dolci pasquali, dove le contadine portavano le uova e i ragazzi facevamo la spola tra la casa di campagna e il paese irpino, Chiusano San Domenico, per comprare zucchero, cannella e farina bianca, mentre un grande forno al piano terra ardeva come una fornace. Di fronte a tanta grazia di Dio era forte la tentazione di gustarla subito, ma nei giorni della Passione, vigeva il “precetto dei precetti”, per farlo, bisognava aspettare prima la “risurrezione” di Gesù.

“Noi pregustavamo - scrive Nazzaro - uovae torta, avvolti in un’aria calda di zucchero e cannella, tra un profluvio di confettini multicolori che saltavano da ogni parte e, forse per questo, chiamati “diavolilli”, proprio come quei diavoletti, che decoravano in mille ghirigori le torte tentatrici”.

“Le contadine? Nella primavera innanzi erano delle mocciose, ora cresciute venivano su dai campi baldanzose, con fazzoletti sgargianti sulle trecce nere, ci parlavano della Pasqua, delle funzioni. In chiesa l’arciprete dispensava ordini come un generale, una volta, però, all’improvviso, fu disorientato dal volo imprevisto di una rondine, entrata durante l’inverno, attraverso una vetrata frantumata del tempio. E fu subito consulto su come spingerla a uscire tra l’intuibile scompiglio dei presenti, che sorprendentemente la stessa rondine placò, uscendoda dove era entrata.

Finiva così una suspense e ne cominciava un’altra la più importante: a un tratto dietro all’altare quattro forti contadini, al gesto dell’arciprete, si fecero il segno della croce e sollevarono in alto la statua del Redentore, risorto, tra un crepitio, fuori nel borgo, di fuochi e spari di mortaretti. Dalla casa, laboratorio di dolci e di preghiere, che era in fondo al paese, donna Lorenzina, già con la faccia a terra, chiamava a gran voce mia madre: “Donna Marietta! Donna Marietta, addenocchiatevi (inginocchiatevi), ché spara la Gloria!”.

Le “campane a Gloria, cioè festose dei borghi si scioglievano dopo il lutto della Passione e il loro suono portava pace e allegria nei contadi”.

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