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La riflessione
28 Aprile 2025 - 09:17
Papa Francesco
Quando alle 7,35 del 21 aprile 2025 è morto Francesco, il Papa degli ultimi, il mondo di tutti - piccoli e grandi, ricchi e poveri, potenti e impotenti - si è reso conto di essere rimasto orfano di qualcuno (un gigante in questa realtà di lillipuziani) o, ancora meglio, di qualcosa, la luce che lo riportava a casa, il faro come una promessa o una speranza nella tempesta, la voce paziente e salvifica nel silenzio assoluto.
Ed è a quest'ultimo aspetto della vita del pontefice, "tornato", il giorno dopo la celebrazione della resurrezione di Cristo, "nella casa del Padre", alla sua parola, mai doma, mai venuta meno, mai arretrata nella finzione o nella convenienza, alla sua sonorità illuminante e tenace, che dedico questo mio pezzo, quantomeno nella parte di essa che è stata trascritta su un foglio, un documento o anche nella prefazione di un libro, come nel caso di specie.
Il riferimento è, infatti, alla "Lettera ai poeti" che Jorge Mario Bergoglio ha scritto nel dicembre del 2024 in occasione della pubblicazione del volume "Versi a Dio", Antologia della poesia religiosa (Crocetti Editore), a cura di Davide Brullo, Antonio Spadaro e Nicola Crocetti, tratta a sua volta (e riadattata in forma scritta dal pontefice stesso) da un discorso pronunciato il 27 maggio 2023 nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico e rivolto ai partecipanti al Convegno promosso da “La Civiltà Cattolica” con la Georgetown University.
In questo straordinario documento - ulteriore attestato, qualora ve ne fosse bisogno, della rivoluzionaria sensibilità e istintiva lungimiranza dell'uomo - Papa Francesco affrontava col suo stile inconfondibile il tema della "poesia", dandole una dignità artistica, oserei dire quasi liturgica, che sfugge non solo alla gran parte degli uomini di buona volontà (il che, consentitemi di dirlo, è quasi scontato in un tempo di buio culturale e umano come quello che viviamo), ma ai poeti stessi, a cui consiglio per primi di rileggerla e non perderne mai più memoria.
In breve, come fa lo stesso autore alla fine della sua splendida missiva, Francesco dice ai poeti: "Dunque: occhi che sognano, voci delle inquietudini umane; e perciò voi avete anche una grande responsabilità. E qual è? È la terza cosa che vorrei dirvi: siete tra coloro che plasmano la nostra immaginazione.
Il vostro lavoro ha una conseguenza sull’immaginazione spirituale delle persone del nostro tempo. E oggi abbiamo bisogno della genialità di un linguaggio nuovo, di storie e immagini potenti". Non basta. Le parole conclusive di quella lettera del Santo Padre risuonano ancora più spiazzanti e fulgide: "Cari poeti, grazie per il vostro servizio. Continuate a sognare, a inquietarvi, a immaginare parole e visioni che ci aiutino a leggere il mistero della vita umana e orientino le nostre società verso la bellezza e la fraternità universale. Aiutateci ad aprire la nostra immaginazione perché essa superi gli angusti confini dell’io, e si apra alla realtà tutta intera, nella pluralità delle sue sfaccettature: così sarà disponibile ad aprirsi anche al mistero santo di Dio. Andate avanti, senza stancarvi, con creatività e coraggio! Vi benedico."
Leggere questa epistola ha aperto il mio cuore alla consapevolezza che ciò che siamo e amiamo sono la stessa cosa e dobbiamo perseguire entrambe le cose con pervicacia e rispetto, per noi e per gli altri. Non solo. Dobbiamo - nel perseguire la nostra opera e i nostri sogni - sforzarci sempre di migliorare, di "debordare" come ha scritto lo stesso Francesco in quella lettera, andare a cercare nuove strade e nuove soluzioni, stilistiche solo in apparenza, in realtà dense di una sostanza che ha a che fare col mondo e la sua vita futura.
Ora capisco Emily Dickinson, che scelse di essere poetessa quando comprese il significato simbolico profondo dell'episodio biblico, descritto in Genesi 32:23-32 e in Osea 12:4-5, di "Giacobbe alle prese con l'angelo", dove la materia vinceva sullo spirito solo se sapeva trarre da esso lo straordinario e irripetibile potere benedicente e purificante.
La stessa poetessa statunitense riprodusse quel racconto magico in una piccola poesia che diceva così: "L'Angelo implorò il permesso / Di fare Colazione - per poi tornare - / Certo che no, disse l'astuto Giacobbe! / "Non ti lascerò andare / Salvo che tu non mi benedica" (...) E lo sconcertato Atleta / Scoprì d'aver sconfitto Dio!". Un sottile e inalterabile filo unisce chi è luce e chi quella luce la vede e la racconta. Come non esser certi perciò che il viandante Francesco, l'uomo che quasi per caso ha governato la Chiesa Cattolica per 12 anni, sia stato il "primo vero profeta degli ultimi duemila anni" (parole del teologo e filosofo Vito Mancuso) e quello che con le sue innumerevoli, umili, sconfinate parole ha scritto un nuovo, necessario Vangelo.
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