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L'analisi

Anniversari, simboli stanchi: scrivono liti e non unioni

Il nostro Anniversario ha coinciso con la fine del pontificato di papa Francesco. Un ministro della Repubblica ha invitato a festeggiare con sobrietà la ricorrenza. Apriti cielo.

Anniversari, simboli stanchi: scrivono liti e non unioni

25 aprile in Piazza Duomo a Milano

Parliamo delle amenità italiane, giusto così per svagarci, dato che quelle del mondo son troppo enormi al momento per poterle affrontare con un po’ d’ironia, che mai non guasta. Gli anniversari ufficiali – si sa – sono materiale simbolico, segni complessi che servono – servirebbero – a trasmettere messaggi edificanti e, nei limiti in cui la simbolicità può farlo, ad unire intorno ad obiettivi comuni.

Il nostro 25 aprile, ormai da tempo immemore, sembra produrre l’effetto contrario: creare polemiche, spesso pretestuose, dividere in fazioni, sviluppare violenze orchestrate, animare dibattiti tanto inconsulti, quanto irresponsabili, in un momento storico che richiederebbe il trasmettere senso di responsabilità, serietà, impegno sulle cose.

Purtroppo, il nostro 25 aprile è sì un simbolo, bensì di provincialismo, immaturità, pensiero strumentalizzante, filologismo distorcente, insomma, simbolo di alcuni vizi italiani insuperabili, in un Paese dove particolarismi, campanili e settarismi usurati (ma non disinteressati) fanno premio sugli obiettivi generali.

L’ultima. Il nostro Anniversario ha coinciso con la fine del pontificato di papa Francesco. Un ministro della Repubblica ha invitato – memore dei precedenti – a festeggiare con sobrietà la ricorrenza. Apriti cielo. Si è scatenata un’irrefrenabile polemica, la quale ha letto nell’esortazione del rappresentante governativo – peraltro banale, forse anche scontata – un implicito tentativo di dequotare la simbolica data, di porla insomma in secondo piano, col non troppo nascosto intento d’avvilire i valori resistenziali dei quali essa è portatrice.

E questo già la dice lunga circa la carica simbolica che quell’annuale evento porta con sé. Un simbolo è un simbolo, si caratterizza proprio per questo. Sta lì per altro, come un segnale stradale che è lì per indicare la direzione di marcia, a volerla molto semplificare. Ma il simbolo, quello vero, è un segno assai molto più complesso, perché suscita reazioni molteplici, a seconda dei destinatari cui s’indirizza: la croce del Cristo induce a pensieri assai diversificati se percepita da un credente cattolico o da un mussulmano fedele a Maometto, se collocata in una chiesa o sulla vetta d’una collina.

Insomma, il simbolo non si governa, perché – a differenza delle sue più semplici manifestazioni regolate da leggi, come per il segnale stradale – esso è carico di significati, tanti quanti la storia gliene sovrascrive, implicando ragione e sentimento in un dosaggio che sfugge a qualsiasi potere, anche il più dittatoriale.

E non a caso, le dittature soffrono più d’altri sistemi politici della potenza simbolica: e quanto più intendono cancellare i simboli (con carceri e morte), tanto più finiscono col produrne d’incontrollati e contrari ai loro intenti: basti pensare esemplarmente al caso di Nelson Mandela. Ma torniamo al nostro più modesto 25 aprile.

Ogni anno uno strappar di vesti perché quella ricorrenza, in luogo dell’accomunar divide. Ogni anno, gli inani tentativi del Presidente della Repubblica pro tempore di pronunciare parole aggreganti, integratrici, unificanti. Ogni anno, però, quel simbolo funziona per quel che è: un simbolo carico di significati contraddittori, o almeno come tale avvertito, recanti reazioni di contrapposizione, suscitatore di violenze, ormai quasi rituali e dunque anch’esse simboliche più che spontaneamente sgorganti.

Quel simbolo è diventato interprete penetrante della nostra identità nazionale: fatta, come si diceva, di campanilismi, faziosità, malafede, difetto di senso d’identità: di un’identità vera, radicata, quella che fa avvertire la salus rei publicae quale suprema lex. No, da noi tutto questo è completamente assente, prevale sempre e comunque l’interesse particolaristico, sia quello dell’individuo, della famiglia, della congrega, del partito.

Tutte formazioni, queste, non da disconoscere, ma che dovrebbero operare nella consapevolezza d’essere componenti di entità superiori ed espressione d’interessi più ampi, non perseguendo i quali nemmeno quelli loro propri riescono a farsi valere durevolmente ed efficacemente.

Ora, il rito del conflittuale 25 aprile è una realtà simbolica che esprime al meglio lo stato dell’Italia. Ed anche l’uso deviato e deviante che si fa della nostra storia. Forse, andrebbe vietato il cosiddetto ‘uso pubblico’ della Storia, in un Paese in cui l’incapacità di ricercare una qualche lettura veritiera del passato, lo condanna ad un’eterna ipocrisia, ad un miope osservare, ad un non saper guardare al futuro con occhio schietto ed osservatore della realtà in una prospettiva costruttiva: nella consapevolezza che se non si riconosce per quanto possibile quel che è stato, e lo si distorce sempre in vista d’un presente che non guarda al futuro, è proprio il futuro che perde di spessore e soprattutto d’attrattiva: insomma, non ci s’impegna perché il futuro possa costruirsi al meglio, quando si perde di vista quel che è costato realizzare il presente, la complessità che si è dovuta affrontare e si fa d’ogni questione un serraglio per cattivi ed un areopago per anime elette.

La vicenda del 25 aprile, quel che essa realmente suscita puntualmente negli animi del Paese, al di là delle retoriche istituzionali e delle parole d’occasione che i vertici responsabili sono tenuti a pronunziare e gli irresponsabili a brandire, è un segno molto eloquente della vita nazionale. Ci si dovrebbe lavorar sopra, ma seriamente, con il senso di realtà e non rivestendo di logora retorica ogni cosa. Perché la retorica, quando è vuota, incapace cioè di suscitare i sentimenti che vorrebbe animare, crea effetti paradossali, sviluppa il contrario, perché non si lega ad alcunché d’effettivo. Quello che accade da noi ormai da anni. 

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Commenti all'articolo

  • Francesco

    29 Aprile 2025 - 08:04

    Il 25 aprile 1945 segnò la fine della guerra civile. Poi il tempo aveva attenuato le divisioni, finché - a partire dagli Anni Novanta - sono riapparse le bandiere rosse, sono tornati gli appelli alla Resistenza perpetua e si sentono di nuovo le accuse di Fascismo! Adesso i manifestanti della Liberazione si insultano a vicenda!

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