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L'analisi
12 Maggio 2025 - 09:33
Una brillante indagine condotta nei giorni scorsi dalla Procura di Napoli sembrerebbe avere individuato in tempi molto rapidi i responsabili dell’omicidio di Raffaele Durante, maturato all’interno di una cosiddetta faida del clan Sequino, assai attivo tra i quartieri Mercato e Sanità.
La vicenda pone però anche in evidenza una serie di elementi che fanno intendere quanto difficile, e soprattutto inane, sia il contrasto a siffatto tessuto criminale. L’omicidio del Durante – peraltro cugino di Annalisa Durante, vittima-simbolo delle nequizie continuamente alimentate dalla delinquenza organizzata operante da sempre nella città – è il frutto di una reazione sanzionatoria posta in essere dall’associazione assassina che fa capo alla nobile famiglia.
Alcuni mesi fa, esattamente il 24 ottobre dello scorso anno, un altro componente dell’organizzazione, il quindicenne Emanuele Tufano, rimase ucciso in un conflitto a fuoco, che si sospettò essere opera di azione proditoria di una fazione del medesimo clan. Il quale ultimo avviò rapido la propria istruttoria, escutendo testi, svolgendo indagini, acquisendo informazioni.
E quando ritenne d’avere raggiunto la prova della responsabilità, emise definitiva condanna nei confronti di Raffaele Durante, facendolo freddare il 15 marzo scorso, in via Santa Teresa degli Scalzi, sotto gli occhi attoniti della fidanzata. Detto per incidens, il sospetto sicario, di lì a qualche giorno, ha a sua volta contratto festoso matrimonio. Il quadro che viene fuori dalle indagini è deprimente.
Anzitutto, questi giovani, spesso largamente minorenni, sono dotati –regolarmente – di armi da fuoco. Sembrano non avere alcuna difficoltà a procurarsi gli strumenti della morte, ad esercitarsi nell’uso, menandone vanto ed identificando in essi i segni della propria affermazione e del proprio successo nell’ambito dei contesti in cui vivono e formano le proprie categorie di giudizio, se vogliamo definirle così.
Inoltre, essi operano all’interno di organizzazioni alquanto efficienti. L’episodio che s’è narrato presenta numerosi i tratti di un’organizzazione assai simigliante ad un sistema giuridico, per di più dotato di un’efficacia anche superiore a quella degli ordinamenti che del giuridico portano a pieno titolo il nome. L’omicidio del giovane Durante non è il frutto di una reazione a caldo, presa da qualche testa infiammata dall’ira.
No, è il frutto di una decisione formatasi dopo un’attività investigativa svolta per disposizione degli organismi direttivi dell’organizzazione a delinquere, i quali hanno avviato indagini ad hoc, acquisito prove, maturato convincimenti ed emesso il verdetto, portandolo ad immediata esecuzione. Il tutto è durato appena cinque mesi e l’ordine violato è stato ristabilito, con una sanzione esemplare certamente dotata di una discreta deterrenza. Cosa può opporre lo Stato a tutto ciò? Sul piano cioè della sanzione? Ben poco di similmente efficace.
Questa volta, certo, le indagini sono state brillantemente condotte, grazie a strumenti investigativi efficaci; ma ora c’è da svolgere processi, verificare gli elementi acquisiti, sottoporli al vaglio di più gradi di giudizio. Ed all’esito applicare una pena, più o meno efficace, a soggetti parte dei quali anche minori, assicurandoli per qualche decennio ad un istituto di pena, confidando anche in benefici che permettano di ridurne la durata, in ragione di buoni motivi.
Ed all’esito cosa si sarà ottenuto? Di restituire alla società un soggetto nella maggior parte dei casi peggiorato nell’animo, che nel penitenziario avrà maturato esperienze negative sotto molti riguardi e che avrà sviluppato pensieri difficilmente cooperativi e di socievolezza. Questo, nella gran parte dei casi.
Ma soprattutto, la sua esperienza non sarà certo servita ad altri d’esempio; l’effetto deterrente sarà stato pressoché nullo, ed anzi si saranno sviluppati in altri che vivono esperienze analoghe alle sue, sentimenti di solidarietà e condivisione. La vera deterrenza – ed i relativi condizionamenti nell’azione e nel giudizio – l’avrà assai di più prodotta la sanzione del clan, immediata, efficace, definitiva, rapidamente ripetibile, qualora se ne riproponessero eventualmente le condizioni.
Tutto questo per dir cosa? Che non debbano esserci indagini, arresti, condanne? Ovviamente no. Dinanzi alla delinquenza efferata e radicata, questi rimedi sono indispensabili, come la più avanzata frontiera nella difesa sociale. C’è poco da fare: quando si ha da fare con simile criminalità – una criminalità inesorabilmente sgorgante dalle condizioni ambientali in cui questi giovani vengono al mondo, sono allevati e formano il proprio essere – non c’è altro da opporre quale diretta conseguenza che la costrizione fisica.
Ma ben sapendo che non serve a nulla per il futuro; che, anzi, ad ogni incarceramento seguirà ulteriore sodalità in quell’ambiente, ed emulazione, perché la forma mentis colà presente reagisce così, percependo l’organizzazione comunitaria come nemica, realtà non solo estranea, ma da combattere perché d’ostacolo allo svolgimento della personalità allevata ai valori del crimine, delle sue regole, degli onori e riconoscimenti che conferisce.
Purtroppo, non ci sarà telecamera che tenga, prevenzione che si mostrerà efficace, misura di polizia che otterrà altro risultato, diverso da quello della reazione immediata e limitata a singoli casi. Il lavoro da svolgere sarebbe tutto da indirizzare nella disarticolazione delle condizioni sociali che producono il crimine.
E ci vorrebbero investimenti non visti sino ad ora, sulla formazione, l’istruzione, il trasferimento di competenze che assicurino l’integrazione nei circuiti virtuosi della società. Ma di tutto ciò nulla è alle viste e dunque continueranno inesorabilmente ad operare con efficienza una serie di organizzazioni parallele, che alleveranno il loro capitale umano, numeroso e motivato, destinato alla sua trista esistenza.
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