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L'analisi
17 Maggio 2025 - 09:45
Il governatore della Campania, Vincenzo De Luca
Vincenzo De Luca è ineleggibile. La Corte costituzionale ha depositato la sentenza che mette la parola la fine al paradigma dei presidenti senza data di scadenza. Per vent’anni il Paese ha assistito al dilagare indisturbato di un equivoco incostituzionale. Ma la Corte è un organo passivo, si attiva solo su impulso di Stato, Regioni o giudici.
E se in qualche regione il terzo mandato (ma pure il quarto, e il quinto) è “già legge”, la responsabilità è tutta politica. Il tema è bipartisan e i governi precedenti hanno sistematicamente voltato lo sguardo altrove, scegliendo di non impugnare leggi regionali chiaramente incostituzionali o abdicando all’esercizio dei poteri sostitutivi pure previsti dall’articolo 120 della Costituzione.
Oggi il giudice delle leggi parla del limite come necessario argine alle “spinte plebiscitarie” e al “rischio di concentrazione del potere” derivanti dall’elezione diretta del presidente. Ma quello che la Corte chiama “rischio” è nei fatti già realtà. Tra liste civiche, premi di maggioranza, giunte composte da yes man, consigli regionali sotto scacco delle dimissioni anticipate del presidente e gestione di bilanci miliardari, tutto è ormai concentrato nelle mani di un solo uomo.
Una pericolosa escalation di iperpresidenzialismo, con l’esaltazione della figura del capo. Allo stato attuale, l’unico vero limite allo strapotere dei presidenti è sapere che dopo dieci anni dovranno lasciare la guida della Regione. Come si è arrivati a tutto questo? Le riforme degli anni 2000 dovevano essere un laboratorio per sperimentare forme di governo alternative, incoraggiare la creatività degli amministratori locali e declinare il pluralismo territoriale.
Ma la realtà è stata ben più modesta: nessuna prova di capacità creativa da parte delle regioni ma piuttosto ricerca ossessiva della stabilità tout court. Il risultato è presto detto: un cortocircuito istituzionale dove il presidente decide tutto, sia prima (scegliendo chi ammettere alla coalizione con liste civiche e liste del presidente), sia durante (con la gestione indisturbata del potere), sia dopo la fine del mandato.
È il caso di De Luca che orgoglioso afferma: “Il futuro della Campania non può prescindere da me”. È questa la cornice in cui opera il divieto. Una cornice capace di inquinare tutto, compresa la stessa qualità del sistema democratico. Ed ecco perché la sentenza assume oggi un significato importante. Il limite del doppio mandato rimane – purtroppo - l’unica linea di resistenza contro la pericolosa deriva di un potere personale assoluto.
E credo sia giunta l’ora di smetterla con la retorica stantia dell’autonomia regionale come valore assoluto. È tempo di fare i conti con la realtà. L’esaltazione dell’autonomia regionale non ha prodotto alcun beneficio per il Mezzogiorno. Anzi. Le regioni meridionali restano drammaticamente penalizzate, con un pesante deficit in termini di servizi pubblici, infrastrutture essenziali, sanità, trasporti, opportunità lavorative. Vittime di una deriva secessionista che ha liquidato troppo in fretta le ragioni del Sud e favorito la cristallizzazione del sottosviluppo.
La stessa parola Mezzogiorno è scomparsa dalla Costituzione e con essa si è eclissato quel disegno maturato in Assemblea costituente, che voleva fare del pluralismo regionale – a cavallo tra autonomia e solidarietà – il banco di prova per superare gli storici divari territoriali, non certo per congelarli o acuirli. In questo quadro, la Corte costituzionale si conferma ancora una volta il bastione di ultima istanza contro le tentazioni di chi sogna poteri perpetui.
Ha sbarrato la strada a Zaia e Calderoli sull’autonomia differenziata. Ha fermato De Luca sul terzo mandato. La Costituzione riprende il suo posto: da testo troppo spesso calpestato a insuperabile argine giuridico contro le velleità di onnipotenza di chi, senza imbarazzo, gongola alla parola governatore.
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