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la riflessione
19 Maggio 2025 - 08:00
Ha suscitato reazioni di sdegno l’iniziativa presa dallo studente d’una scuola superiore in quel di Bassano del Grappa, provincia di Vicenza, che ha avviato un sondaggio all’interno della chat della sua classe per stabilire quale, tra tre recenti vittime di brutali femminicidi meritasse più delle altre d’essere oggetto della cieca violenza maschile.
Pochi minuti dopo l’inizio dell’intrapresa, lo stesso studente dev’essersi reso conto dell’abnormità della sua bravata e s’è provato a farne sparire le tracce, non prima peraltro che alcuni sui compagni avessero aderito dando risposta alla sua sollecitazione. Troppo tardi, perché ormai occhi avidi di conoscere, registrare, intrigarsi, già avevano immagazzinato il suo documento, che ha avuto adeguata diffusione su media ed altro.
È poco per comprendere se il gesto sia stato una semplice bravata o qualcosa che affonda attraverso più profonde radici in un becero tessuto culturale. Credo si stia esagerando nel darle tanto spazio ma, sulla scorta di tanto pochi elementi, è difficile far spazio a considerazioni d’un qualche spessore. Certo, quanto accaduto è il segno d’un certo modo di considerare tutto come permesso, dell’assenza di limiti etici, d’un deficit di orientamento.
Ma questo è molto noto ed è un effetto abbastanza palpabile di quanto diafani siano oggi gli orizzonti valoriali che sta producendo il disorientamento complessivo ed il distacco tra generazioni, oltre che la carenza evidentissima di spessore nelle dirigenze. M’è capitato l’altro giorno di tenere una lezione ad alunni del bel Liceo artistico napoletano Filippo Palizzi, che ha sede sulla collina di Monte di Dio, negli ambienti un tempo destinati alla formazione dei quadri della Marina borbonica. Un luogo carico di storia, che ha favorito il formarsi di un’istituzione scolastica strutturata e molto attiva.
E l’ho potuto verificare per la qualità degli ascoltatori. Essi venivano da un anno in cui i docenti avevano posto in essere una sperimentazione tutta mirata a sviluppare la loro sensibilità civica e l’attenzione per le istituzioni, attraverso la prolungata simulazione di un’organizzazione costituzionale, nell’ambito della quale ciascun partecipante impersonava i ruoli richiesti: parlamentari, ministeriali e giù di lì nei vari profili istituzionali.
Ho quindi trovato studenti in responsabile formazione, ma forse anche per questo, inclini a rivolgere domande cariche di contenuti, eloquenti nel loro sottostante. Il rapporto tra il cittadino e le istituzioni politiche è stato al nucleo di più d’una sollecitazione: e gli snodi tematici ruotavano intorno all’avvertita insoddisfazione nella capacità delle seconde di leggere nelle esigenze del primo, direi ancor più di porsi in sintonia con quanto necessario a svolgere quel compito d’indirizzo delle energie collettive verso gli obiettivi per i quali tutta l’organizzazione pubblica dovrebbe esser tarata, perché non sia avvertita come parassita, ed utile solo ad alimentare sé stessa.
Venivo sollecitato a dare risposte su questo incolmabile scarto tra comunità ed apparati, dove i secondi sono identificati come qualcosa di lontano, disfunzionale, fine a sé stesso. Come pure sono stato sollecitato a discutere di libertà d’informazione, anch’essa sentita come qualcosa di confezionato ad hoc, di stereotipo, di falsificante, incapace di porre criticamente problemi e questioni, di sollecitare lo svilupparsi d’un pensiero critico e non prono alle mode ed agli ondeggiamenti del momento, insomma incapace di contribuire alla battaglia contro il populismo.
Si parlava di arte e diritto, di arte del diritto, di diritto nell’arte; ma si coglieva molto bene quell’atteggiamento di fondo, quella diffidenza nei confronti di quanto per quegli studenti viene da generazioni che non sono vistecome operatrici responsabili delle loro scelte: insomma, si leggeva, o almeno a me è parso chiaramente di poter leggere, che quegli studenti, pur desiderosi di conoscenza, vogliosi di comprendere, di capir meglio il mondo, non avevano fiducia, non avevano fiducia che quanto la politica va determinando nell’attualità guardi realmente al futuro, si ponga davvero il problema di lasciare un domani, se non migliore dell’ieri, almeno compatibile con le condizioni di possibilità della vita costruttiva e socievole.
Certo, episodi come quello della scuola di Bassano del Grappa non possono semplicemente ascriversi ad un’alzata di testa; ma essi, piuttosto che ad animi pravi, credo vadano imputati ad un sostrato di profonda indifferenza nei riguardi dell’orizzonte valoriale che circonda i nostri giovani e delle retoriche che accompagnano il discorso pubblico.
Un discorso che suona falso, che non riscuote effetti emulativi, bensì di sospetto; un discorso al quale non s’accompagnano condotte esemplari ma molto più spesso indegne e buone solo a suscitare diffidenza nelle menti in formazione, che guardano molto più alle azioni ed alle condotte che ai vuoti verbalismi, magari anche eloquenti (assai raro, però) ma carenti di riferimenti reali e concreti.
Sicché, anche là dove s’incontrino giovani strutturati ed attenti al contesto, non per questo in essi si sviluppa affectio per le proprie istituzioni, quel senso d’adesione che solo la fiducia in esse, nel loro operare, nell’avvertirle dirette al perseguimento di scopi comuni permette di naturalmente maturare.
E questa distanza è la premessa per la tabe della socialità, dove il rapporto con l’altro non è vissuto in modo fattivo e fiducioso, ma prevenuto e guardingo, sino al punto che il da farsi è unicamente identificato inteso con il proprio particulare. A questo fallimento nella costruzione dell’ambiente sociale si dovrebbe por riparo con politiche di ampia visione, non strutturate sul mero presente, e con condotte pubbliche rigorose, suscitatrici di affidamento. Le parole non seguite – o precedute –da azioni sono vane: e non è mai troppo tardi per prenderne attoe reagire.
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