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LA RIFLESSIONE

Sradicare il “panregionalismo”, Compagna lo denunciò nel ‘75

La “criticità” è stata ampiamente “compensata” da un energico intervento del Presidente Mattarella

Sradicare il “panregionalismo”, Compagna lo denunciò nel ‘75

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella

La maggiore e comprensibile attenzione - riservata, negli ultimi due mesi, dal mondo mediatico a una serie di epocali eventi riguardanti la Chiesa, Roma, il centro della cristianità - ne ha fatto passare in secondo piano molti altri. Tra questi è giusto riproporre il “festival delle regioni”, la cui sigla a cui sigla fa pensare a una kermesse dello spettacolo, mentre è tutt’altra cosa: una convention di verifica e consulto sullo stato, sempre inquieto e molto attuale, di importanti enti territoriali.

Quest’anno, anche se un po’ oscurato per quanto appena detto, si può affermare che la “criticità” sia stata ampiamente “compensata” da un energico intervento del Presidente Mattarella. Energico nel senso di una sorta di invito-monito preliminare ad ogni altro discorso , sintetizzato dal suo convincimento che “le Regioni hanno avuto abbastanza, per poter costruire un Stato nuovo, più moderno e più vicino ai cittadini rispetto a quello della tradizione centralistica e burocratica per favorire lo sviluppo sul versante locale”.

Senza perdere altro tempo. Dopo la riforma costituzionale della elezione diretta dei Presidenti delle Regioni e la modifica del Titolo V della Costituzione, che ha attribuito alle Regioni, unitamente ai Comuni, alle Province, alle Città Metropolitane, al pari dello Stato, il carattere di ente costitutivo della Repubblica, opportunamente il Capo dello Stato ha lasciato intendere molto bene che il resto toccava e tocca farlo in ragione del principio autonomista.

Presente, sin dall’origine, tra quelli fondamentali della nostra Costituzione, che ha avuto più ampia attuazione. Se è vero che il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni ha richiesto del tempo per assestarsi, la sua odierna riduzione a livelli fisiologici, ha comunque assicurato stabilità allo svolgimento delle funzioni tra i diversi livelli territoriali di governo.

Anzi, l’autonomia avendo avuto un’adeguata valorizzazione, efficace e vantaggiosa, ora serve una maggiore sensibilità istituzionale, nel coltivare il rapporto tra loro per gestire al meglio il fitto incrocio delle rispettive competenze. In particolare la gestione delle forme di intreccio nel riparto di fondamentale importanza per il buon esercizio dei rispettivi compiti nell’interesse dei cittadini.

Sottolineato anche dalla Corte costituzionale molto netta sul principio “della indispensabilità tra Regioni e Stato del rispetto dei limiti delle competenze proprie stabilite dalla Costituzione o dalle leggi, la indispensabile convergenza e un più corretto bilanciamento tra rispettive istanze ed esigenze”.

Insomma lo spirito di collaborazione, prima di essere raccomandabile di per sé per civiltà e tutelare interessi collettivi, deve “essere soprattutto considerato strategico per superare intollerabili divari tra i diversi sistemi sanitari regionali, nel garantire una copertura universale e un accesso uniforme alle prestazioni sull’intero territorio della nostra Repubblica”.

Tutto ciò per scongiurare il “panregionalismo”, in agguato in ogni regione, a nostro avviso, quale “potenziale moltiplicatore di egoismi”. Un limite storico, che ci fa doverosamente ricordare il grande e lungimirante meridionalista Francesco Compagna, tra i primi a denunciarlo in un memorabile discorso, tenuto a Napoli il 10 marzo del 1975, cinquant’anni fa, in occasione della “Conferenza delle Regioni meridionali”.

Quando disse che “l’attuazione delle Regioni non si doveva intendere come una ricetta, buona per tutto o per tutti, anche per la soluzione della questione meridionale ma la si doveva intendere come un’occasione facile da sciupare, difficile da cogliere, e che, tuttavia, si doveva cogliere.

E per coglierla, ci si doveva proporre quattro finalità, conseguibili proprio grazie all’attuazione dell’ordinamento regionale: legislazione minore agli organi regionali. 1) Il trasferimento di buona parte della legislazione minore agli organi regionali; 2) La valorizzazione delle più convenienti circoscrizioni di raccordo fra centro e periferia che, nell’epoca dei trasporti veloci, sono appunto le Regioni; 3) La giusta articolazione territoriale della programmazione territoriale economica: 4) Lo “snellimento” delle funzioni burocratiche, evitando al cittadino di doversi recare a Roma per questioni risolvibili nel capoluogo regionale grazie a opportune misure di decentramento, a ben riflettere finalità che non ci sembra siano state raggiunte, colpa della resistenza centralista e colpa delle impostazioni panregionaliste.

Comunque compromesse da quella che, a suo tempo, fu chiamata enfasi regionalista, che ha svelenito resistenze centraliste e però ha dato via libera alle fughe in avanti.

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