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L'analisi

Una pena tra i sospetti: dubbi, silenzi e 17 anni

La legge parla secondo chi la fa parlare, perché la legge da sé non agisce, essendo costituita di parole scritte, incapaci d’agire, se non attraverso chi ad esse dia concretezza

Una pena tra i sospetti: dubbi, silenzi e 17 anni

Alberto Stasi

Mentre si sta consumando un autentico dramma mediatico sulla vicenda del tragico omicidio, risalente all’agosto del 2007, di Chiara Poggi nell’abitazione di famiglia in quel di Garlasco, la Procura generale di Milano ha proposto ricorso per Cassazione avverso la decisione del Tribunale di sorveglianza che ha accordato, il beneficio della semilibertà ad un penitenziariamente meritevole Alberto Stasi, condannato per l’omicidio a 16 anni di reclusione.

La ragione del ricorso alla Suprema Corte sarebbe nel fatto che il Tribunale non avrebbe valutato adeguatamente la rilevanza di un’intervista che lo Stasi, durante il godimento della misura alternativa, ha rilasciato al Le Iene, per rappresentare la sua visione delle cose, ora che è in corso a Pavia una riedizione delle indagini, che vedono tormentare, sempre a distanza di 17 anni, un altro sospetto del delitto, Andrea Sempio.

L’iniziativa della Procura Generale, per carità pienamente legittima sotto ogni profilo strettamente giuridico, dà bene il senso di come le cose umane sono viste dal giurista quando mette all’opera i meccanismi processuali dei quali egli è sovrano. E questo deve lasciar pensare. Lo Stasi è sospettato – è il caso di giocar con le parole dei giuristi – d’essere in carcere ormai da molti anni, incolpevolmente.

Non entro, ovviamente, nei contenuti dell’indagine, tutta puramente indiziaria, perché sarebbe necessario conoscerla per filo e per segno, prima di potersi esprimere, fatto com’è stato l’andamento della vicenda, di assoluzioni ripetute e condanne definitive. Osservo piuttosto che la condizione esistenziale delle persone viene considerata non diversamente da una pratica burocratica, prescindendosi completamente dal contesto, dal suo svolgimento, dall’intensità delle emozioni che la connotano.

Lo Stasi è in carcere da anni, sempre proclamandosi innocente e le prove a suo carico devono essere alquanto traballanti, se è vero com’è vero, che è stata riaperta l’indagine, oggi a carico di altro malcapitato, perché non si è trovato alcun decisivo elemento per stabilire la sua responsabilità penale, ma essa è stata ricavata – anche con riguardo al non certo trascurabile profilo del movente – sulla base di sole supposizioni, certamente non fatti oggettivamente deponenti.

Ora, che quest’uomo ormai trentottenne, implicato nella vicenda da quando di anni ne aveva ventiquattro, avverta la necessità d’esprimere la sua visione delle cose, avvalendosi di un regime di semilibertà nell’ambito del quale non erano previste limitazioni specifiche quanto ai suoi rapporti con la stampa – e dunque abbia fatto uso di quel che si chiamerebbe libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 cost.) – e che questa sua espressione di personalità possa costituire ragione per privarlo del regime di semilibertà; e che, soprattutto, questa sua iniziativa sia stata valorizzata dalla Procura Generale a tal fine restrittivo, beh tutto ciò fa intendere cosa significhi finire nell’ingranaggio della giustizia italiana.

Perdere il diritto d’essere uomo. Certo, nulla impediva alla Procuratrice Generale di Milano di prendere la sua iniziativa; ed anzi, se la si intervistasse, non esiterebbe essa a dire che a tanto era obbligata dalle cose, che non ha fatto cosa diversa dall’obbedire al comando della legge. Naturalmente, non è vero, nel senso che essa non ha fatto altro che obbedire al comando di quel che a suo dire la legge le imponeva di fare.

Ed è qui il punto: la legge parla secondo chi la fa parlare, perché la legge da sé non agisce, essendo costituita di parole scritte, incapaci d’agire, se non attraverso chi ad esse dia concretezza; e questi attuatori sono giudici che hanno una cultura essenzialmente burocratica, per la quale gli uomini spesso e volentieri finiscono con l’apparire pratiche, fascicoli privi d’anima. Ma del resto è l’intera vicenda di Garlasco a chiarirci in qual realtà mai noi viviamo.

La condanna a carico dello Stasi è avvenuta dopo due assoluzioni, dunque sulla base d’un quadro indiziario altamente opinabile e certamente assai lontano da quella condizione d’assenza di ‘ogni ragionevole dubbio’ che dovrebbe presiedere – in base alla legge, che però può esprimersi solo attraverso i giudici che dovrebbero essere anzitutto loro, ragionevoli – ad ogni decisione di colpevolezza. Si pensi poi alla situazione del Sempio.

Egli – a distanza di circa 18 anni dalla vicenda – si sente chiamare nuovamente in causa sulla scorta di elementi indiziari davvero imbarazzanti, quali possono esserlo il confronto d’impronte digitali fotografate all’epoca o la “compatibilità" di materiali biologici. Quando, dato il tempo trascorso, è certamente impossibile ricreare un attendibile scenario complessivo, nel quale collocare le condotte di ciascuno dei sospettati o sospettabili.

Quando, per il lunghissimo tempo trascorso, è svanita gran parte della realtà, gran parte della memoria individuale e collettiva, quando insomma si tratta di lavorare con ombre ed ipotesi, suggestive ed azzardare, sulla base delle quali non solo non sarebbe mai possibile escludere ogni ragionevole dubbio, ma il ragionevole dubbio dovrebbe presiedere ad ogni passaggio delle investigazioni, che non potrebbero che concludersi nel senso del dubbio radicale su quanto accaduto 18 anni fa.

Ma c’è la sete del colpevole, della vendetta, dell’individuazione d’un responsabile, qual che sia. E non si vuol perciò prendere atto d’una semplice realtà: che si dovrebbe scagionare lo Stasi, perché la vicenda è costellata da troppi dubbi e che per arrivare a questo non si deve condannare per forza qualcun altro, nei confronti del quale le prove sarebbero ancor più evanescenti.

Si dovrebbe prendere atto che l’umana capacità di ricostruire il passato è limitata e che è santa cosa liberare un probabile innocente, risarcendolo del torto probabilmente subito, senza per necessità porre al suo posto un capro espiatorio, altrettanto probabile innocente. E poiché questo non risulta chiaro, sarebbe assai opportuno prevedere che non si possa indagare in eterno per condannare, ma soltanto per liberare.

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