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Dei delitti dei giovani e delle pene degli adulti

Abbiamo trasformato i bambini in piccoli adulti senza strumenti formativi ed esperienziali per esserlo

Dei delitti dei giovani e delle pene degli adulti

Smetterla col solo predicato e riprendere la “strada del praticato”, dell’esempio e della responsabilità consapevole. Non c’è nulla di sorprendente. Ciò che accade è tutto perfettamente coerente con il mondo che abbiamo inopinatamente ricostruito. Queste tragedie sono la conseguenza diretta di ciò che abbiamo accettato di diventare. Abbiamo trasformato i bambini in piccoli adulti senza mezzi strumenti formativi ed esperienziali per esserlo. Li lasciamo soli con smartphone e social, e ci stupiamo se scambiano l’amore per possesso, la gelosia per sentimento, la violenza per un semplice gesto impulsivo estremo.

Da Milano a Napoli, da famiglie benestanti a contesti più fragili, il comune denominatore è l’assenza di un’educazione e condivisione testimoniata emotiva e relazionale. Crescono ragazzi incapaci di sopravvivere alla frustrazione, impreparati alla bella fatica del vivere insieme, alla complessità dei sentimenti. «Lo smartphone è diventato un surrogato affettivo. I ragazzi crescono davanti a uno schermo, iperstimolati, disabituati al silenzio, al confronto reale, alla noia. Non parlano più. Comunicano a suon di emoji, di like, di stories.

Ma non si ascoltano, non si comprendono, non sentono. La cultura è la rapidità di scelte ragionate, del ‘mi piace’, ha sostituito quella del ‘mi importa’. I ragazzi oggi cercano conferme, non relazioni. E quando qualcosa finisce, spesso non sanno gestire la perdita. Quando muore una ragazza, tutti si indignano. Si fanno fiaccolate, minuti di silenzio, post su Facebook. Ma poi? Niente. La politica resta a guardare. Le agenzie educative troppo impegnate alla cultura del buonismo permissivo ed alla apodittica “accoglienza”men che meno alla educazione ed al rispetto delle differenze naturali ed anche di genere i programmi scolastici non cambiano, i fondi per l’educazione alle emozioni non arrivano, le famiglie non vengono sostenute nel ripristino dei valori e delle relative responsabilità di essere genitori».

«Non è solo una questione di leggi più severe, ma di abbandono di valori culturali che hanno consentito per millenni di sopravvivere. Non basta punire chi uccide. Bisogna prevenire ed educare anche alle rinunce chi pensa che l’amore giustifichi il possesso. E questo lo si fa a scuola, in famiglia, nei media. Serve una rivoluzione culturale. Siamo diventati una società che si commuove brevemente ma non cambia anzi dopo brevi rigurgiti di sdegno dimentica. Abbiamo una memoria emotiva breve. Ci indigniamo per tre giorni, poi passiamo al prossimo caso, quasi con famelica esigenza dei prossimi minuti di indignazione, il dolore collettivo si consuma velocemente, senza lasciare tracce concrete».

«Finché continueremo semplicemente solo a stupirci, vorrà dire che non abbiamo capito. Dobbiamo smettere di sorprenderci e cominciare ad agire. Il tempo della retorica è finito. È ora di educare. E per educare bisogna riprendersi responsabilità, rischiare impopolarità, scegliere la fatica della testimonianza concreta invece della comodità della breve ostentata indignazione». Sic est.

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